C’È UN MALE per così dire endemico della politica italiana unitaria. O forse sarebbe meglio dire che c’è un tratto della “italianità”, in senso politico, che si riflette nella storia del nostro Stato ma al tempo stesso la travalica perché proviene da dimensioni della cultura e della mentalità del Bel Paese assai lontane e profonde: la incapacità (o resistenza, o riluttanza) a portare le grandi questioni decisionali in sede per l’appunto istituzionale affinché vi siano discusse in maniera quanto più possibile trasparente e suscitino (e al contempo rispecchino) un sano dibattito all’interno della cittadinanza.
Nella logica della oggi più diffusa forma di governo parlamentare, ciò che percepiamo è la ricorrente assenza di un confronto polarizzato tra le posizioni di una maggioranza governativa e quelle di una opposizione alternativa che si svolga nelle assemblee rappresentative ai diversi livelli di governo, in primis in quella parlamentare. Il fenomeno ha quantomeno due anime: da un lato l’osmosi maggioranza opposizione (tutto sommato accettata dai cittadini come fisiologica e dunque non sanzionata al momento delle elezioni) e dall’altro l’assunzione di sedi non istituzionali come opportuni luoghi di elaborazione delle risposte alle sfide che il governo si trova ad affrontare.
La Storia degli ultimi 150 anni pullula di esempi in proposito: dal Trasformismo ottocentesco ai voltagabbana partitici di montanelliana memoria (ma ancora tanto attuali), dall’entrata nella Prima Guerra Mondiale decisa dai vertici del governo monarchico con parlamento chiuso al nevrotico utilizzo repubblicano del referendum come scorciatoia rispetto alle difficoltà del dibattito assembleare.
Che tutto ciò sia generato da un qualche difetto genetico del nostro sistema istituzionale, da un lacunoso processo di formazione identitaria o da una atavica propensione all’arte di arrangiarsi, alla ricerca del compromesso e alla drammatizzazione di ogni contraddittorio più che alla coerenza programmatica e ideale è questione difficilissima da risolvere.
Il quadro sembrerebbe in ogni caso sconfortante. Ma forse, proprio nella peculiare capacità italiana di non irrigidirsi su questioni di principio o dictat ideologici, gestendo le infinite possibilità interstiziali di pratica compromissoria che ne derivano, sta una risorsa politica eccezionale. Nel passato non sempre l’abbiamo gestita con sufficiente maturità. Ma non è detto che le cose non possano cambiare.