Da un lato Romolo, ultimo imperatore romano d’Occidente, che di fronte al drammatico avanzare delle truppe germaniche guidate dal barbaro Odoacre si diletta di pollicoltura con flemma imperturbabile, tra lo sconcerto della sua corte strampalata; dall’altro la figlia Rea, intenta in esercizi di declamazione drammatica. Poi, il fidanzato di lei, Emiliano, un giovane patrizio romano, prigioniero per tre lunghi terribili anni dei Germani, che ora, per salvare Roma, non esiterebbe a dare la giovane in sposa al ricco mercante Cesare Rupf, industriale di calzoni, uomo dalle immense ricchezze e dalle ambizioni di potere smisurate. E poi cuochi regicidi, antiquari truffaldini e Romani patriottici: questi gli enigmatici personaggi della tragicommedia Romolo il Grande di Friedrich Dürrenmatt, rappresentata per la prima volta a Basilea il 25 aprile 1949, oggi riproposta, con il commento introduttivo di Elena Raponi, docente di Letteratura tedesca nelle sedi di Milano e Brescia dell'Università Cattolica, e con la voce recitante dell’attrice Giuseppina Turra, nell’ambito del ciclo di conferenze “Letteratura & Letterature” nell’aula multimediale dell’Università Cattolica di Brescia.
In un intreccio tra reale e grottesco, tutte le figure si muovono e agiscono per difendere le proprie convinzioni o per distruggere quelle altrui. È proprio il caso del protagonista Romolo, imperatore inetto e sornione che, dietro quella che tutti credono follia, nasconde invece una precisa e lucida volontà: mandare in frantumi ciò che resta del proprio Impero, colpevole ai suoi occhi di aver operato ingiustizie, sopraffazione, violenza, ma deludendo così le aspettative di coloro che credono nella possibile salvezza della grande Roma. All'appello rivoltogli da Zenone, imperatore romano d’Oriente, di unire le proprie forze alle sue per salvare la civiltà, Romolo risponde con una domanda sconcertante: “Perchè, la civiltà è qualcosa che si può salvare”. È questo l'apice del primo atto, l’irruzione del tragico nel mondo comico e grottesco di galline starnazzanti che attorniano come unica seria occupazione regale Romolo Augusto.
A poco a poco intuiamo come la vicenda di Romolo rappresenti per il drammaturgo svizzero l’occasione per una parodia surreale e buffonesca, a tratti grottesca, della storia a lui prossima, quella del Terzo Reich e della Germania Nazista nelle ultime convulse e tragiche fasi della Seconda Guerra mondiale. Il patriottismo tragico-eroico e la follia della guerra sono derisi da Dürrenmatt attraverso la bocca di Romolo in dialoghi ora comici ora drammatici.
L'Imperatore resta fermo nella propria presunta follia fino all’ultimo. Quando poi i Germani sono ormai vicini, egli li attende con noncuranza, con insuperabile ironia: «Quando arrivano i Germani, falli accomodare!» – sono le sue istruzioni al maggiordomo. Ma quando alla fine giungono, colpo di scena, vogliono sottomettersi a Romolo, che rifiuta questo onore. Odoacre assumerà controvoglia il potere e farà grazia della vita a Romolo, “Augustolo” per la tradizione, ma davvero grande, l’unico vero grande uomo, agli occhi dell’umanissimo barbaro. L’ultimo imperatore di Roma viene mandato in pensione con un lauto vitalizio: amara conclusione per chi aveva giustificato dinnanzi alla propria coscienza la rovina di Roma con la prospettiva certa della propria morte, ma giusto finale per la storia di Romolo, nel cui atteggiamento si legge il rifiuto di Dürrenmatt per la società del Terzo Reich, fondata sulla violenza, sulla volontà di conquista e di oppressione degli altri popoli. Risplende in questa posizione la convinzione espressa già nel novembre del 1914, durante il primo conflitto mondiale, nel Manifesto stilato dalle università francesi: «La civiltà è opera non di un unico popolo, ma di tutti i popoli. La ricchezza intellettuale e morale dell’umanità è creata dalla varietà e dalla indipendenza di tutte le nazioni».