Letteratura impegnata, di sentimenti e denuncia; storie vere di uomini cittadini del mondo, perché «è nel confronto con il diverso che nasce la cultura». È il flujo de conciencia di Luis Sepúlveda che, in un incontro organizzato dalla facoltà di Scienze linguistiche, si è confrontato con gli studenti della Cattolica sul significato e il valore della letteratura. A dialogare con lui ci sono gli amici Victor Andresco dell’Istituto Cervantes e Dante Liano, docente di Letteratura spagnola in largo Gemelli: «I suoi romanzi muovono dalla passione – ha detto Liano - ci ricordano che siamo vivi ed è bello esserlo».
E l’autore cileno raccoglie l’assist: «Se si considerano i valori come qualcosa di superato, allora mi sento un uomo del passato. Non ho smesso di credere nei principi rivoluzionari, nella riforma di Stato e di società che muovevano la mia passione politica all’inizio degli anni ‘70». Ricorda quel ’73, che sancì l’ascesa della dittatura di Pinochet e la censura delle sue ideologie: ricorda con l’obiettivo di farle rivivere, perché dal suo Cile oggi vive lontano ma senza dimenticarlo. «Nella mia letteratura, e in quella di molti altri, quei valori si conservano freschi, vitali».
Quella di Sepúlveda, incalzato dalle domande di professori e studenti, è una riflessione che va oltre la letteratura. Lo scrittore cileno non parla solo del suo ultimo romanzo, Ritratto di gruppo con assenza, di cui si limita e delineare i personaggi, figure «trasparenti e passionali». Sepúlveda va oltre e parla di politica: la parola chiave è partecipazione. «Sento un vincolo etico che mi lega alla società. Per questo credo che la partecipazione politica sia necessaria ed esorto i giovani ad impegnarsi», dice.
La realtà, spiega, «è fatta di incongruenze, ed è compito delle letteratura portarle a galla. Un esempio? La percentuale di giovani precari, senza un lavoro fisso, è inaccettabile. Per la nostra generazione, almeno, la garanzia di un lavoro c’era. Oggi non è più così. C’è una riformulazione dei diritti umani, di cui le multinazionali e il capitalismo sono i principali responsabili».
Non le manda a dire a nessuno, neanche quando si parla di migranti. Lui stesso, spiega, si sente un viaggiatore, un migrante esistenziale. Spesso si parla dell’immigrazione come un problema moderno, invece «è la storia dell’umanità». E continua: «La storia è fatta di sano confronto. Non possiamo vivere isolati, perché è conoscendo gente con volti diversi, scoprendo anche quanto si abbia in comune, che si costruisce cultura». Su questo versante, Sepúlveda non risparmia una critica ai media, che sbaglierebbero ad affrontare il tema-migranti facendolo percepire come una minaccia.
Lo scrittore si tuffa nel passato, racconta la notte di quel settembre 1973, quando visse il golpe militare da esponente del partito socialista cileno. Racconta i primi momenti di terrore vissuti con un gruppo di amici, con cui era andato a fare scorta di acqua potabile. Ricorda con fermezza. Poi torna al presente e saluta i ragazzi, col sorriso sì, ma richiamandoli ancora alla responsabilità: «C’è un detto in Cile: gli studenti sono la lievitazione del pane che mangeremo domani. Non dimentichiamolo».