La violenza sistematica e quotidiana è sempre la stessa, in tutti gli olocausti della storia. Così come i tormenti e le ossessioni dei sopravvissuti. È uguale anche il bisogno di raccontare, di tornare indietro con la memoria e di cercare una verità che possa spiegare il male. Neanche le motivazioni cambiano, se non all’apparenza, perché dietro ogni eccidio umano c’è un’ostilità inspiegabile, se non con l’irrazionalità che investe la storia. A cambiare sono i nomi dei luoghi, i volti e la lingua delle vittime, le date da riportare nei libri. Auschwitz, dove sono stati cremati 1500mila ebrei, è uguale a Srebrenica, dove 8mila bosniaci sono stati trucidati durante la guerra nei Balcani. Ricordare un olocausto equivale a ricordarli tutti, conferendo un valore aggiunto alla memoria, che diventa così un organo pulsante che non si atrofizza in un ricordo, ma che crea collegamenti, che unisce i fatti, che determina una riflessione globale, sull’uomo e sulla Storia.
Così, dalla testimonianza di Elvira Mujcice dal suo libro Al di là del caos. Cosa rimane dopo Srebrenica, è tratto lo spettacolo teatrale omonimo messo in scena lo scorso 27 gennaio, Giornata della memoria, nella libreria dell’Università Cattolica di Brescia: è la testimonianza di un’infanzia negata, di una fuga dalla Bosnia verso l’Italia, dove, con sofferenza, Elvira ha ricucito l’esistenza, ha costruito il futuro. In Italia Elvira si è laureata in Lingue e letterature straniere all’Università Cattolica, nella sede di Brescia. Nel paese che l’ha accolta, è riuscita a voltarsi verso il passato, per ripercorrere il dolore di una memoria privata e per portare la testimonianza del genocidio dei musulmani bosniaci nella cittadina di Srebrenica, durante la guerra civile del 1995. Nel massacro di Srebrenica, Elvira ha perso il padre, e il tema di una memoria intima e ferita si incrocia oggi con il tema della memoria condivisa, che supera i confini nazionali e che permetta una riflessione sui genocidi che si ripetono, si replicano, in anni recenti e in luoghi vicini.
«Sono proprio gli avvenimenti e le tragedie più vicine – dice Elvira Mujcic – che devono essere ricordati. Perché non è necessario aspettare che passino cinquanta o sessant’anni per parlare di ciò che accade oggi o che è accaduto ieri. Parlare della Bosnia, del Ruanda, ricordarli sin d’ora, dà la possibilità di comprendere di più».
Così come Zlatan, il protagonista del suo ultimo libro E se Fuad avesse avuto la dinamite?, la giovane autrice bosniaca ha compreso a dodici anni cosa significhi essere musulmano, cosa voglia dire appartenere a una minoranza su cui si accanisce la violenza di un gruppo maggioritario. A dodici anni Elvira ha compreso il dramma di tutti gli olocausti, di tutte le pulizie etniche. «Nella giornata della memoria – continua – vorrei si dedicasse una riflessione particolare alla necessità di rispettare tutte le minoranze. Perché, se il mondo venisse guardato in termini relativi, il concetto di minoranza si altererebbe e scopriremmo che tutti, in spazi e in modi diversi, apparteniamo a una minoranza».
Così come Zlatan, fuggito dall’assedio della Bosnia nel 1995 e che, dopo anni in Italia, ormai trentenne, torna a interrogarsi sulle contraddizioni e le incomprensioni della sua gente, Elvira si interroga sulla sua storia e sul valore di una memoria «a cui non si deve dare solo un significato retrospettivo, ma che deve creare speranza per il futuro, che deve incidere nel piccolo mondo in cui siamo chiamati a vivere. Ma con la comprensione del rispetto che tutti gli esseri umani meritano».