LUCIANO MANARA (1825-1849): «Io non farò mai nulla di grande perché non ho ambizione, perché le stesse cerimonie della celebrità mi seccano; perché per essere famoso bisogna essere ciarlatani». Benvenuto sia questo 150° dell’unità d’Italia. Riaprire ogni tanto lo scrigno di storie e testimonianze del Risorgimento, specie quando esse ci parlano di rinunce e sacrifici, di sofferenze patite senza clamori, è farmaco salutare per le odierne generazioni di narcisi in cerca di celebrità, per le culture del guadagno ottenuto senza studio e senza impegno. Ma è ogni memoria partecipe di destini umani (anche quella dettata dai meccanismi a orologeria di un anniversario) a farci fare un passo avanti nella direzione del giusto.
Se l'idea e la pratica della giustizia non possono rinchiudersi dentro l’antica formula dell’unicuique suum (che lascia irrisolta la questione di che cosa sia il “suo” spettante a ciascuno), devono comunque muovere da un'attenzione (da un “rendere giustizia”) all’unicum di ognuno: dalla narrazione partecipe della “sua” storia singolare, sul cui stampo si modellano la dignità e i diritti dei tanti. Insieme alla giustizia della memoria, il centocinquantesimo evoca la giusta idea di unità e, in controluce, l’ingiustizia della divisione. Il fremito di emozioni unitarie che è parso attraversare in queste settimane molta parte del Paese, ammaestra forse sull’irrilevanza delle frammentazioni localistiche e acuisce lo sguardo verso la vera e più grave divisione che tutti ci offende: la divisione tra un’Italia rispettosa delle regole scritte e non scritte - della trasparenza, della decenza, dei doveri di ogni giorno - e un’”altra” Italia, cinica, opportunista e ciarlatana, con poche idee e molti interessi, corruzioni, mafie, camarille e logge segrete, P2, P3…
Si dica ai novelli detrattori del Risorgimento che il loro bersaglio è forse solo la sagoma svigorita di quell’epopea affascinante, di quella stagione coraggiosa e creativa: di quanto ne è rimasto dopo la colata di piombo scuro versato goccia a goccia sulle ali di quelle aspirazioni da un groviglio di poteri senza controllo, dall’”altra” Italia, più tardi di nuovo intenta alla sorda erosione degli slanci della Resistenza e della Costituzione repubblicana. Già nel 1954, riprendendo il severo giudizio di un eminente costituzionalista cattolico e della Cattolica come Giorgio Balladore Pallieri, Piero Calamandrei deplorava la “Costituzione inattuata”, “fatta e poi disfatta”.