NEI DECENNI cruciali che vanno dalla Repubblica Cisalpina all’impresa dei Mille, i letterati dell’età risorgimentale si assunsero un compito di straordinario rilievo, suscitando nella gioventù colta del Paese, coi loro versi infiammati, frementi «amor di patria» come «l’ossa» di Alfieri nei Sepolcri foscoliani, il desiderio pungente di battersi per l’Italia, fino a dare la vita per farla risorgere, libera e indipendente, a nuovo splendore. Per accendere «a egregie cose il forte animo» dei loro connazionali, poeti e scrittori si valsero sopratt u tto delle memorie storiche, riesumando dai secoli passati e ponendo in una luce eroica vicende e figure che testimoniavano le mai sopite virtù civili dei nostri progenitori, la loro difesa a oltranza dell’onore italiano e l’insofferenza per ogni dominazione straniera. Ce ne offre una sintesi a suo modo mirabile la quarta strofa del nostro inno nazionale, concepito nel 1847 da un ragazzo non più che ventenne, Goffredo Mameli, che avrebbe trovato la morte, appena due anni dopo, nell’estrema difesa della Repubblica romana: «Dall’Alpi a Sicilia / dovunque è Legnano, / ogn’uom di Ferruccio / ha il core, ha la mano, / i bimbi d’Italia / si chiaman Balilla, / il suon d’ogni squilla / i Vespri suonò». Mettendo insieme quattro insurrezioni contro altrettanti gioghi stranieri (tedeschi, spagnoli, austriaci e francesi), avvenute in quattro secoli diversi e in quattro distinte regioni della penisola (Lombardia, Toscana, Liguria, Sicilia), il giovane patriota mostrava che tutti gli italiani avevano sempre nutrito un fermissimo spirito d’indipendenza.
La storia patria insegnava, peraltro, anche attraverso i tanti errori politici che erano stati la rovina d’Italia, che l’agognata libertà non si sarebbe mai potuta ottenere finché gli italiani fossero rimasti divisi. Nel Proclama di Rimini, scritto da Manzoni nel 1815, in appoggio al disegno, poi rivelatosi velleitario, di Gioacchino Murat, re spodestato di Napoli, di unificare l’Italia sotto la sua corona costituzionale, si legge, ad esempio, questo perentorio endecasillabo: «liberi non sarem se non siam uni». E il medesimo ideale unitario torna, più risoluto e convinto che mai, nelle Fantasie dell’esule Berchet, pubblicate a Londra nel 1829 e dedicate - si badi - alla grande epopea della Lega Lombarda contro Federico Barbarossa, dal giuramento di Pontida (1167) alla pace di Costanza (1183). L’autore sottolinea, nell’introduzione al poema, che i protagonisti di quella storia erano stati i «primi» a parlare «di concordia dove non era che risse» e a concepire «l’alto disegno dell’indipendenza nazionale ». E questo è il testamento lasciato, in punto di morte, da uno degli eroi della gloriosa battaglia di Legnano: «Non la siepe che l’orto v’impruna / è il confin dell’Italia, o ringhiosi; / sono i monti il suo lembo: gli esosi / son le torme che vengon di là». Un monito, questo, che vale tuttora, contro ogni gretta visione municipalistica del nostro Paese e ogni deriva separatista.