«Ologramma? – La donna giapponese non si era mossa di un millimetro. Rydell ripensava a quello che aveva visto quella notte. […] Josie proietta sempre – disse il barista, come se fosse una cosa che non si poteva evitare. – Da quella cosa che tiene in grembo? – Quella è l’interfaccia – disse il barista. – Il proiettore è lassù – Indicò. – Sopra l’insegna Nbc. Rydell scorse un piccolo apparecchio nero fissato sopra una vecchia insegna luminosa. Sembrava una specie di vecchia macchina fotografica, di quelle ottiche. […] – Ingannerebbe chiunque – disse il barista».
È un passaggio di Luce virtuale, romanzo di William Gibson, il padre del movimento Cyberpunk. È il 1993 e i discorsi con cui di solito la società precede e accompagna la ricerca tecnologica – in particolare quelli del cinema e della letteratura – per tutto il decennio lavorano a costruire la profezia di un futuro prossimo contraddistinto dall’affermazione sociale della realtà virtuale, ovvero della possibilità per il soggetto di immergersi e di manipolare oggetti dentro ambienti sintetici generati dal computer. Certo, i toni sono spesso distopici: le atmosfere sono più angoscianti che tranquillizzanti, come in Matrix (1999), che descrive un’umanità fagocitata dalle macchine, il cui orizzonte è costituito dal programma di cui è prigioniera; viene inquadrata la questione etica, come in Nirvana (1997) di Salvatores, dove il protagonista di un videogioco, acquisita la coscienza del suo stato per colpa di un virus, chiede al programmatore di eliminarlo prima che il gioco venga commercializzato; ancora, viene evocata la colpa d’origine, come nel Tagliaerbe di Brette Leonard (1992), in cui il protagonista, un giardiniere affetto da ritardo mentale, viene potenziato dalla tecnologia nelle sue possibilità mentali che poi userà per vendicarsi di chi si prendeva gioco di lui e conquistare il mondo. L’inquietudine che da questi discorsi trapela è sintomo del fatto che in quegli anni effettivamente si percepiva questo futuro come possibile, e nel breve termine. E si pensava che, insieme ai problemi che sempre ogni novità porta con sé, potesse garantire nuove possibilità all’agire umano, come testimoniò, tra il 1993 e il 1998, la pubblicazione nel nostro Paese della rivista «Virtual», vero e proprio manifesto del virtuale come opportunità e come sviluppo.
Ma cosa promette(va) veramente la realtà virtuale all’uomo? Potremmo rispondere: l’emancipazione dal corpo. La vita realmente degna di essere vissuta, perché libera dai limiti che il corpo impone, perché potenziata in tutti i suoi sensi, per Gibson e per i teorici del Virtuale è quella “sintetica” che si dischiude non appena si varca la soglia che separa il mondo in cui viviamo dagli universi paralleli che grazie alla tecnologia diviene possibile abitare. Concettualmente, come diversi studiosi hanno fatto notare, si ha a che fare con un duplice costrutto intriso di neoplatonismo di ritorno: un dualismo antropologico che immagina il corpo come peso di cui liberarsi trovando nella tecnologia la possibilità di estendere a dismisura l’esperienza cognitiva del soggetto; e un dualismo ontologico che pensa il virtuale come una dimensione altra rispetto a quella reale, un universo parallelo da cui si entra e si esce, proprio come il personaggio di Luce virtuale grazie al suo joystick e a un proiettore.
La promessa non è stata mantenuta. Il futuro (ovvero il nostro presente) non è fatto di macchine per “uscire dal mondo”. Le ragioni sono diverse.
Anzitutto, dal punto di vista economico, l’attrezzatura che serve a generare realtà virtuale costa troppo, tanto che oggi gli unici luoghi in cui questo tipo di installazioni si possono trovare sono i laboratori di ricerca o i training center degli eserciti. I costi non si sono mai abbassati perché la realtà virtuale non è mai diventata bene di largo consumo. La causa va cercata nel fatto che le attrezzature che servono a generarla (casco, guanti-dati per la manipolazione remota degli oggetti) sono ingombranti e pesanti: la tecnologia Vrd (Virtual Retinal Display), ovvero la possibilità di creare degli occhiali capaci di disegnare i mondi virtuali direttamente sulla retina dell’occhio, è rimasta a livello sperimentale e… nel libro di Gibson.
Infine, lo sviluppo successivo della tecnologia, segnato dalla portabilità e dalla connettività, ha dimostrato che l’uomo rimane indiviso e ben piantato nella realtà del mondo in cui vive, anche quando comunica con i media. Quando il cellulare vibra è il nostro corpo che lo avverte, è il nostro corpo a darci segnali di stanchezza o di disagio se prolunghiamo troppo la nostra attività davanti al computer (la schiena reclama, gli occhi bruciano), è sempre il nostro corpo a essere chiamato in gioco da interfacce touchscreen sempre più improntate alla manipolazione. Quanto al rapporto tra mondo reale e mondo virtuale, poi, nonostante le tecnologie spesso ci “prendano la mano” tenendoci incollati allo schermo di un videogioco o alla nostra pagina di Facebook, in tutte queste circostanze la nostra interazione con esse è sempre situata, in contesto: il ricordo del corpo e della realtà intorno a noi è ben presente.
Ma al di là dei fattori (economico, ergonomico, tecnologico) che ne hanno condizionato l’affermazione, sono i costrutti su cui la realtà virtuale si basa a essere discutibili, perché l’uomo è un intero, sinolo di corpo e anima, e perché il virtuale (come già ben evidenziato da Pierre Levy, e da Roberto Diodato nel suo importante libro Estetica del virtuale) non è aristotelicamente da contrapporsi al reale, ma all’attuale.
Che cos’è la “realtà aumentata”
Il decennio che si sta chiudendo ha contribuito all’accantonamento del progetto sulla realtà virtuale. Grandi protagonisti dello sviluppo tecnologico, nel campo della comunicazione, sono stati in esso la rete internet (e in particolare gli applicativi 2.0 che hanno portato alla nascita e allo sviluppo del social network) e il telefono cellulare. Tra i due tipi di tecnologia esiste una stretta relazione. Nella misura in cui il web diviene la vera piattaforma della comunicazione, servono strumenti che consentano di connettersi a esso in maniera comoda e ubiqua. La diffusione delle reti wireless, lo sviluppo dei protocolli internet veloci per cellulare, la trasformazione del telefono in uno strumento integrato di comunicazione come accade con gli smartphone e l’i-Pad sono il risultato di questo processo.
In virtù di questa evoluzione cambia la nostra concettualizzazione dei media. Lungo gli anni Novanta si era affermata una loro rappresentazione come ambienti: lo suggeriva il modello-piattaforma che poi ha avuto successo nell’e-learning (e in fondo anche la realtà virtuale, in quanto “luogo” in cui entrare, era in qualche modo pensabile come un ambiente). A quell’idea si avvicenda oggi quella dei media come tessuto connettivo: artefatti “intelligenti”, molto integrati nelle nostre vite, che ci consentono di essere in interazione tendenzialmente continua con i nostri documenti, con le informazioni che ci servono, con le persone. Semplificando un po’ si potrebbe dire che lo scenario pare essere rovesciato rispetto a quello profetizzato dai fautori della realtà virtuale: invece di invitarci a uscire dal mondo verso altri mondi, i media hanno deciso di entrare loro nel nostro; essi non funzionano come porte che mettono in comunicazione luoghi differenti, ma piuttosto come protesi, come innesti in grado di arricchire la nostra capacità di produrre e scambiare informazioni e di fare comunicazione.
Il concetto della realtà aumentata nasce a ridosso di questa idea dell’arricchimento della nostra realtà da parte dei media e in senso stretto consiste nel potenziare la nostra conoscenza di qualcosa attraverso informazioni (immagini, dati, testo) a essa relative.
Le applicazioni più comuni e già entrate nell’uso sociale della realtà aumentata sono i codici QR (Quick Response) e il servizio Google Googgles di Google.
Il codice QR viene sviluppato nel 1994 da una società giapponese, la Denso Wave, che nel 1999 lo rilascia sotto licenza libera. Da quel momento, prima in Giappone e poi nel resto del mondo, il codice comincia a essere utilizzato per svariate applicazioni. Di forma quadrata, un codice QR si può considerare come l’evoluzione del codice a barre e si presenta come un mosaico astratto di quadratini neri e bianchi. Tecnicamente esso contiene informazioni pari a 7.089 caratteri numerici e 4.296 alfanumerici. In Italia alcuni magazine già lo usano per rendere disponibili per il lettore informazioni supplementari sugli articoli o video a essi relativi. Dal punto di vista pratico è sufficiente essere in possesso di un cellulare dotato di videocamera e che monti un apposito software (come i-nigma, Kaiwa reader o Quickmark) che si scarica gratuitamente dalla rete. Inquadrando il codice con la videocamera, si visualizza il testo o si naviga il link contenuto in esso.
Google Googgles spinge in avanti questa possibilità. Per ora disponibile solo per telefonini dotati di un sistema operativo Android, il software consente al telefono di riconoscere, inquadrandolo con la videocamera, un monumento, una strada, un luogo qualsiasi, mettendo a disposizione in tempo reale per l’utente immagini e informazioni a esso relative che siano disponibili in Google. Così, se mi trovo davanti all’ingresso dell’Università Cattolica in Largo Gemelli, a Milano, il software caricherà informazioni sull’Ateneo, il suo fondatore, monumenti e ristoranti vicini. Gli sviluppatori stanno lavorando per fare in modo che in maniera analoga il software possa riconoscere testi (già in parte l’attuale versione lo fa) rendendo disponibili per il lettore informazioni sull’autore, la composizione, le edizioni, eccetera.
Sulla scorta di queste applicazioni, molte di nuove sono continuamente rese disponibili: è il caso di Recognizer, un applicativo di una ditta svedese che riconosce i volti fornendo al navigatore informazioni sulla persona e su dove sia presente nel social network.
Ma davvero la realtà aumenta?
L’interrogativo che un simile scenario tecnologico rilancia è relativo all’utilità effettiva della realtà aumentata e serve a fugare il dubbio che si tratti solo dell’ennesima trovata del settore per spingere un nuovo filone di prodotti.
Diciamo subito che almeno in due campi le applicazioni della realtà aumentata lasciano intuire importanti possibilità di utilizzo. Penso in particolare all’education, nello specifico alla didattica di scuola e alla didattica museale.
Per quanto riguarda la didattica di scuola, la realtà aumentata potrebbe costituire un potenziamento rilevante della ricerca di informazioni (ottimizzandone i tempi, rendendo più efficace e pertinente il riferimento della risorsa alla parola di ricerca), essere un accessorio interessante del libro digitale (cui potrebbe ricondurre informazioni trovate nel web), prestarsi a funzionare da strumento di scoperta personale dello studente (una specie di telecamera intelligente), divenire per lui una sorta di assistente personale digitale in grado di sostenerlo nell’esecuzione dei suoi compiti, a scuola e a casa.
Evidenti sono anche i possibili vantaggi per la didattica museale. Un cellulare (o un i-Pod touch) dotato di applicativi di realtà aumentata si trasforma automaticamente in un’audioguida, con il vantaggio rispetto alle audioguide tradizionali di non disporre di informazioni standard (il testo della visita registrato) ma caricate real time con in più la possibilità per il visitatore di interrogarle attivamente, e di essere utilizzabile anche all’interno di musei diffusi all’aperto come i parchi archeologici. Di più. Grazie al tracciamento geosatellitare della posizione del visitatore, il cellulare sarà in grado di associare all’immagine sotto forma di tag le informazioni a essa relative determinando le condizioni per ricreare facilmente un diario multimediale di viaggio come già in parte oggi avviene grazie ad applicativi come EveryTrail per i-Phone.
Proprio quest’ultima sottolineatura offre lo spunto per alcune considerazioni critiche. Sicuramente uno dei problemi con cui la realtà aumentata ci mette a confronto è quello della privacy. La possibilità di “assistere” in maniera sempre più efficace l’utente dipende da quanto si conosce di lui, dalla possibilità di sapere in tempo reale dove si trova, cosa sta facendo, di cosa potrebbe avere bisogno in quel momento. Si tratta di informazioni sensibili che, ad esempio, potrebbero consentire a qualcuno di sapere che mi trovo lontano da casa per ripulirmi l’appartamento, o di scoprire che non sono dove avevo detto di essere, magari per sottrarmi a un impegno fastidioso e godermi del sano relax.
Una seconda questione è relativa alle informazioni che la realtà aumentata mi rende disponibili. Quali sono i criteri che guidano questa presentazione? Sono gli algoritmi dei motori di ricerca a fare la scelta? E in questo caso mi è dato di scegliere con quale motore di ricerca farmi caricare le informazioni dal mio applicativo? E sono sicuro che, invece, non siano le ragioni del marketing, per cui il ristorante che mi viene segnalato non è semplicemente uno di quelli vicini al luogo dove mi trovo, ma quello che ha pagato questo servizio di segnalazione?
Infine, l’uso della realtà aumentata in contesto education rilancia il problema del rapporto tra educazione informale e formale. Se lo studente si abitua a essere assistito nella sua attività cognitiva da dispositivi che enfatizzano la personalizzazione dei processi di apprendimento, questo comporterà un ulteriore approfondirsi della distanza che già oggi separa le modalità attraverso le quali i soggetti apprendono con le tecnologie nei contesti informali (famiglia, gruppo dei pari, centro di aggregazione) e a scuola. La necessità di trovare strategie che favoriscano la convergenza piuttosto che la divaricazione (per dirla con Jenkins), passa dunque anche dalla capacità di monitorare con attenzione gli sviluppi della realtà aumentata.
* docente di Didattica generale e Metodologia della ricerca didattica