Ventidue giorni nella “deep Africa”. Destinazione: Kibwezi, Kenya, un villaggio sorto accanto alla ferrovia costruita dai coloni inglesi, il cui nome deriva dalla posizione assunta dalla gente (in piedi con le mani sui fianchi) in attesa di poter vedere per la prima volta il passaggio del treno.
Dopo essermi laureata in Esperto linguistico per le relazioni internazionali, ho deciso di voler coronare un mio sogno nel cassetto: andare in Africa, ma non da turista, da volontaria. Tramite una Onlus di Roma, Oikos, ho inviato la mia candidatura a un’ong, Uongozi, termine “Kiswahili” che significa leadership (letteralmente "capacità di essere guida").
Il campo di lavoro al quale ho aderito (Teaching and feeding orphans and Vulnerable Children) ha come obiettivo l’assistenza ai minori, quindi l’insegnamento dell’inglese e l’organizzazione di animazione didattica e la promozione dell’igiene e della salute. Questo progetto, iniziato nel 2010, coinvolge la comunità di Kalungu, dove, a causa della povertà e dei chilometri che separano il villaggio alle scuole più vicine, la maggior parte dei bambini non possono godere del diritto all’educazione. E a rimetterci sono soprattutto i bambini sotto i dieci anni. Per questo motivo Uongozi ha dato vita a una nursery school (scuola materna) nella chiesetta del villaggio, se così si può chiamare: sei panche che richiamano il legno usato da noi per le staccionate per le nostre vacche, un pavimento sporco quanto quello di una stalla, una lavagna e qualche cartellone a colorare un po’ le pareti. I bambini usano quadernetti, o meglio, un insieme di tre fogli fatti di una carta che per noi forse andrebbe bene come carta igienica e usano matite che somigliano più a degli stuzzicadenti.
A mezzogiorno “pranzano”: mettono in comune le quattro o cinque ciotoline di fagioli che hanno. Ognuno lava le mani all’altro, stando attenti a non sprecare quella poca acqua disponibile, ma è un gesto inutile dato che per mangiare si siedono in terra e quindi c’è lo sporco a fare da condimento al cibo. Ecco il perché del gonfiore delle loro pance, piene di vermi, e della testa martoriata di piaghe. Sono i più piccoli ad iniziare a mangiare: bambini di due, tre, quattro, cinque anni si dividono da soli le porzioni nelle manine e se qualcosa rimane lo danno ai bambini più grandi che nel frattempo giocano con il pallone o giocano sull’altalena: una corda appesa a un ramo. A ricoprire i loro corpicini mingherlini ci sono vestiti non di seconda mano, di quinta! Buchi e scuciture ovunque, tutti lisi e sporchi che forse noi useremmo come stracci per spazzare per terra, e non hanno nemmeno le mutande.
La maggior parte non ha le scarpe e chi le ha..beh è un complimento chiamarle tali! Sono fatte di paglia o con i copertoni delle auto. Puzzano e sono sporchi peggio delle bestie: se li tocchi sembra di toccare la carta vetro da quanto sono ruvidi e se ti saltano in braccio ti lasciano tutto lo sporco addosso. Ma quello che più stupisce è il loro sorriso mozzafiato, quello che te ne fa innamorare, che ti si stampa nel cuore e nell’anima, e quella loro voglia di scoprire, la loro curiosità, la loro vivacità, così come la responsabilità e fratellanza fra loro.
La prima volta a Kalungu i miei occhi e quelli di Gaia Manfredonia, l’altra volontaria milanese, sono riusciti a reggere lo “spettacolo” per una decina di minuti… per poi riempirsi di lacrime, amare da mandar giù. Un bambino ha pianto, era la prima volta che vedeva dei Muzungu (persona bianca) e aveva paura di noi! Impossibile da pensare… Provavamo dolore e pena… non per loro, ma per noi. In una manciata di secondi la mia concezione di vita all’occidentale si è sgretolata… Ti rendi conto di quanta superficialità ci circondiamo, di che sciocchezze ci lamentiamo, di quante cose inutili desideriamo e di quante ne diamo per scontate.
Cosa fare? Smettere di piagnucolare e tirarsi su le maniche! Abbiamo trasportato in moto le tre valigie cariche di medicine, quaderni, matite, pennarelli, giochi e vestiti che avevamo portato con noi dall’Italia e abbiamo assistito alla gioia e alla sorpresa dei bambini, alla loro timidezza nel prendere un pastello e accontentarsi, anzi esserne felici e usarlo come se fosse l’unica cosa che gli è concessa di avere. Abbiamo cercato di insegnare loro qualche parolina in inglese, impresa un po’ ardua poiché loro, compresa la maestra, parlano il Kikamba (un dialetto locale) e non lo swahili (lingua ufficiale) né tanto meno l’inglese, ma quando si tratta di bambini la lingua non costituisce di certo una barriera.
All’arrivo di un altro volontario, il bergamasco Angelo Suardi, abbiamo iniziato ad aiutare nella costruzione della classe per i bambini, adiacente alla chiesetta, altra impresa difficile dal momento che i ragazzi della comunità non sono molto ferrati a fare lavori di falegnameria e muratura. Durante gli ultimi giorni a Kalungu abbiamo somministrato ai trenta bambini più bisognosi una medicina per curare le infezioni intestinali: una pastiglia e mezzo bicchiere di acqua..e di acqua ne volevano ancora, ma non ce n’è. Ti guardano con occhi disarmanti che ti spogliano di tutto e parlano al posto delle loro bocche, ma bisogna scuotere il capo e risparmiare l’acqua per averne a sufficienza per tutti e trenta i bambini…e loro comunque ti sorridono, ed è il sorriso più bello del mondo, pieno di speranza, di gratitudine e di amore, che ti fa dimenticare di tutto il resto.
Abbiamo costruito un aquilone e sono letteralmente impazziti! Uno sciame di cuori leggeri e voci allegre che rincorreva un semplice aquilone…la loro felicità così sincera, la loro voglia di vivere e di scoprire pur vivendo in condizioni disumane. Si accontentano di ogni sciocchezza… ho sbagliato, ho scritto si accontentano perché ho pensato all’occidentale. Loro ricevono, accettano e ne sono entusiasti. Un dono. Per loro ogni cosa è un dono e tu vorresti poter regalare loro il mondo. Un aquilone color arcobaleno e le loro risate: una delle immagini più belle che i miei occhi potessero vedere. Infine ci siamo armati di catini, saponi, salviette e cinque taniche di acqua (purtroppo ancora troppo poca) e li abbiamo puliti dalla sporcizia, abbiamo gettato i vecchi “vestiti” e gliene abbiamo messi di nuovi, che regalavano un nuovo involucro a quei loro corpicini di cui si iniziava a vedere i lineamenti e a sentirne la morbidezza, come dovrebbe essere ogni bambino del mondo. Era il loro primo bagno. E per sempre mi ricorderò le parole di Eddie Mwanzia (il direttore esecutivo di Uongozi), che ci ha fatto riflettere su quanto possa imprimersi nella memoria di un bambino una cosa che noi consideriamo così semplice e scontata come un bagno (e neanche caldo): «What that can be a waste for you, can be gold for somebody else».
Rientrati in Italia ci siamo resi conto di non essere più quelli che hanno preso il volo a Malpensa diretto a Nairobi a fine luglio. Nelle nostre menti, nei nostri cuori abbiamo tatuato ciò che abbiamo visto e vissuto e non c’è nulla che possa farcelo dimenticare. L’iniziale senso di disorientamento e rabbia provato al rientro ha ceduto il passo alla voglia di fare e ai progetti da realizzare. E vogliamo pensare in grande: c’è la classe da finire, i banchi e i libri da comprare, il cibo da assicurare e un maestro valido da pagare. Forse siamo troppo ambiziosi? Non credo, volere è potere, anche se ci vorrà molto tempo. Ma come ci ha insegnato il popolo africano: Pole Pole (piano piano) “little by little you can fill the cup”.
PS. Per informazioni, se sei interessato a fare questo tipo di esperienza e vuoi mettere a disposizione le tue capacità, se hai dei vestiti e delle scarpe che non usi più, scrivimi al mio indirizzo mail f.bonsi@hotmail.it GRAZIE
*Studentessa di Gardone Val Trompia (BS), laureata in Esperto linguistico per le relazioni internazionali presso la sede di Brescia e iscritta alla laurea magistrale in Lingua, Letterature e culture straniere