di Carlo Resca *
Creare un cortometraggio da zero in tre settimane. Scriverlo a otto-dieci mani, girarlo dove si vuole e mettere insieme i pezzi nell'ordine giusto. A New York. Che è una città... massì, carina. Cioè, tante auto gialle, case molto alte, in mezzo c'è un grosso giardino dove corrono tutti.
Il concetto alla base di questo programma organizzato dalla Cattolica alla School of Visual Arts è elementare. Impara. Fai. Acquisisci le nozioni base di scrittura, regia e postproduzione, tramite lezioni in cui sei costantemente chiamato a dire la tua. Arrivano gli attori. Ti vengono affiancati degli aiutanti. Quando esci là fuori con microfono, videocamera e treppiede, inizi a sentirti un gladiatore buttato in mezzo all'arena. Ci si prende gusto molto in fretta.
La prima settimana: scrittura. Scavi nella storia del tuo gruppo. Riesci a "toccare" quello che si scrive, lo vedi materializzarsi nelle improvvisazioni degli attori. Scopri cose dei tuoi personaggi che non avresti mai immaginato, nascono nuove idee. Sei incoraggiato a intervenire su ogni passo. Vedi il lavoro sulle altre storie, confronti i metodi, prendi le misure coi tuoi compagni di gruppo. Nel frattempo fai location scouting, tradotto: un'ottima scusa per frugare la città in lungo e in largo.
Regia. Ti ritrovi in mano la videocamera prima ancora di aver capito come si accende. Ti spiegano come stendere la shot list, in che situazione usare quale inquadratura. Luci. Suono. Vengono assegnati i TA, in inglese:"T'Aiuto". Il più prezioso alleato della seconda settimana. Trattasi di studente della scuola, che sa più o meno tutto, che ti segue ovunque tu vada e che ha, appunto, voglia di T'Aiutare. C'è da montare il treppiede? Il mixer non funziona? Conosci un localino per stasera? TA, giungi! Specificità di questa settimana: l'imprevisto.
Fatidici, ultimi cinque giorni: montaggio. La stanchezza si fa sentire. A posteriori, non penso fosse questione di ritmi lavorativi serrati: è che, uscendo tutte le sere, salti inevitabilmente qualche ora di sonno, e uscire tutte le sere è la cosa più sensata che si possa fare stando a New York. Imparare a usare il programma, montare, correggere i colori, togliere i rumori di fondo e aggiustare il volume di voce degli attori. Anche qui con un prode T'Aiuto alle spalle, grazie a Dio. Su tutto aleggia una straniante sensazione di dissociazione, del tipo: «Ma l'abbiamo fatto noi?».
Ha il sapore di una terapia d'urto. Gladiatoria. Il tempo non basta mai. Il giorno in cui devi fare tot scene al parco, inizia a diluviare dopo mezz'ora e allora c'è da modificare lo script. In montaggio, ti accorgi che in quelle trecento riprese manca proprio quella che dovresti incastrare lì e che sarebbe stato così semplice fare, piuttosto che girare sei volte da quell'angolazione che alla fine non serve. Ma arrivi alla fine e ti rendi conto che tu e altre tre persone avete creato una cosa da zero. Si arriva esausti, cotti a puntino. Con un cortometraggio fatto e finito.
Sera della proiezione dei corti, cinema della scuola. Sei nervoso, anzi, vorresti sprofondare nella sedia perché sai che quello schermo ingigantirà tutti gli errori e le imperfezioni. E infatti. Ma ad allargarsi non sono soltanto le cose che non funzionano, che comunque (scopri) sono molte meno di quanto pensassi. Sui titoli di coda tu e i tuoi compagni di gruppo vi guardate. C'è un po' di imbarazzo. Torna, più netto, quello straniante senso di dissociazione. Però, sul serio, a questo punto l'ho pensato: amiche gladiatrici, abbiamo vinto.
Fortunatamente è un lavoro di gruppo. Fare questa cosa senza compagni sarebbe un po' come il formaggio fragolato senza i pezzettoni di fragola. Ventiquattr'ore ore su 24 con le stesse persone per venti giorni investono di un significato inedito il termine "convivenza". Inedito e bellissimo. Essere sfiniti in compagnia è un ottimo modo per demolire certe sovrastrutture formali. Non significa maleducazione: ci si può urlare addosso con pacatezza, nel totale rispetto dell'altro. È purezza comunicativa, ed è una delle cose migliori di questa esperienza. Una delle tante che ti aiutano a goderti la città.
Okay che sei solo auto gialle, case alte, grosso giardino. Ma diamoti una possibilità, New York. Come tutte le città, ci sono cose che funzionano e cose che no. Quello che colpisce di più è un forte senso di familiarità. Ogni città ha un linguaggio diverso, il rumore di fondo che si avverte in tutto, dal colore dei marciapiedi a come si ordina un caffè. Normalmente ci metto un po' ad abituarmici, a colmare quel divario che all'inizio mi fa sentire un estraneo. New York apre subito un canale comunicativo con te e ti chiede di non essere diffidente, di buttarti a viverci come se ci abitassi. A New York, appena scendi dall'aereo non ti fai problemi a girare in pantofole. Sei di casa.
Poi è una città strana che gioca a sorprenderti con uno stile tutto suo, vagamente baraccone. Assaggiate un bagel alla cipolla ripieno di formaggio fragolato e capirete che cosa intendo. O entrate in un negozio, uno di quelli grossi, così grossi da dilatare le tre dimensioni: vi accorgerete che c'è effettivamente tutto, ma che il tutto è sapientemente distribuito in modo da ripetersi, per cui sono sì cinque piani però, aspetta, quel vestito io l'ho già visto altre tre volte.
Sono trucchi. Come la dimensione dei panini e la quantità di roba che mettono in certi piatti: nessuno mangia fino all'ultimo boccone, qualcosa si avanza per forza. Ma non è una città che punta a ingannarti. Vuole ammaliarti. Lo fa coi palazzi pseudomedievali incastrati totalmente a caso, fuori contesto, tra due grattacieli. Col vapore che esce dai tombini, che, giuro, ero convinto fosse una roba inventata nei film per fare atmosfera.
Ti ammalia con l'altitudine. Con quegli ultimi tre piani del Rockfeller, terrazze panoramiche da cui si vede. Tutto. L'ideale è andarci verso il tramonto. Noi ci siamo andati un'ora prima e siamo stati lì. Ero convinto di dover aspettare il momento magico, ma in realtà non c'è un culmine: è un dialogo continuo tra sole e città. Il sole si sposta, la città risponde. Il dialogo perfetto, senza usare parole. Solo il colore del cielo che cambia, le ombre sempre più lunghe sui palazzi, le geometrie di luci che si accendono e galleggiano nelle strade mano a mano che fa buio. Non ha lo stesso potenziale di stupefazione di un bagel al formaggio fragolato, ma lascia in bocca un sapore migliore, più a lungo.
* Studente del Master in Scrittura e produzione per la fiction e il cinema, ha partecipato al Summer Program fatto alla School of Visual Arts