Più lavoro in Italia, ma a tempo determinato, frammentato e precario. È il quadro a luci e ombre dipinto dal Consiglio Nazionale Economia e Lavoro (Cnel) che nel suo ventesimo “Rapporto sul mercato del lavoro e sulla contrattazione collettiva”, elaborato in collaborazione con l’Agenzia nazionale politiche attive del lavoro (Anpal) e l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp), ne analizza trend e dinamiche, anche alla luce delle più recenti novità istituzionali introdotte con le riforme e con le misure di contrasto alla disoccupazione.
«Negli ultimi anni la ripresa dell’economia ha creato molti posti di lavoro e l’occupazione sta recuperando i livelli pre-crisi» spiega Claudio Lucifora, docente di Economia del lavoro nella facoltà di Economia dell’Università Cattolica, consigliere Cnel e curatore del Rapporto. «Tuttavia il volume di lavoro, in termini di ore lavorate, resta ancora basso. La crescita dell’occupazione ha poi allargato le differenze di genere e gli squilibri tra Nord e Sud: infatti sono aumentati gli occupati con orari ridotti, si registrano più lavoratori part-time, soprattutto tra le donne, e spesso involontario, c’è una minor crescita al Sud rispetto al Nord. Infine la percentuale della disoccupazione rimane elevata: 10,6%, che sale al 30,4% se si considera l’universo giovanile».
Com’è cambiata la composizione degli occupati? «C’è stato un aumento sia del lavoro precario sia dell’occupazione a bassa intensità di lavoro. I comparti che hanno creato più posti di lavoro durante la ripresa sono alberghi e ristorazione, logistica e trasporti, in cui l’impegno è prevalentemente stagionale e soggetto a picchi improvvisi. Ci troviamo di fronte a una crescita del lavoro “polarizzata”: da una parte, crescono soprattutto le basse qualifiche, dall’altra, vi è un aumento dell’occupazione più qualificata e specializzata, mentre diminuiscono le qualifiche intermedie con mansioni routinarie».
Quindi che cosa cresce? «La ripresa dell’occupazione viene prevalentemente dall’aumento del lavoro part-time e dei contratti a tempo determinato. I dati parlano chiaro: dal 2014 al secondo trimestre del 2018 i contratti a tempo determinato sono cresciuti del +35%, pari a oltre 800.000 occupati. Nello stesso periodo, c’è stato un rallentamento dei contratti a tempo indeterminato che nel complesso sono cresciuti molto meno (+460mila occupati), nonostante il forte incremento del 2015 spinto dalle misure di decontribuzione.
E il “Jobs Act”? Nei fatti il contratto a tutele crescenti che dopo la legge del governo Renzi avrebbe dovuto costituire la forma principale di ingresso nel mercato del lavoro rappresenta solo il 16% delle assunzioni. L’aumento dei contratti a termine, pur essendo trasversale, è sbilanciato soprattutto per genere e ha coinvolto in particolare i lavoratori con livelli di istruzione inferiore. Inoltre la durata di tali contratti si è considerevolmente ridotta: circa l’80% ha una durata inferiore ai 12 mesi, ed è probabile che dopo il decreto dignità di recente approvazione tale tendenza si accentui. In calo anche i lavoratori autonomi, scesi a 117.000 unità, a seguito dell’abolizione dei contratti a progetto».
In sostanza ci troviamo di fronte a un mercato del lavoro che presenta numerose criticità… «Uno dei fenomeni più allarmanti è la crescita negli ultimi anni del lavoro povero. Oltre 3 milioni di lavoratori nel 2015, ma si arriva a 5,2 milioni se si considera il reddito annuale invece di quello mensile, e 2,2 milioni di famiglie povere nonostante almeno un componente sia occupato. La crescente gravità e diffusione della povertà tra i lavoratori e tra le loro famiglie sono da ricondursi a vari fattori: non solo alla crisi economica, ma anche al minor numero di ore lavorate, alla precarietà dell’occupazione, all’impiego di manodopera poco qualificata specie nelle piccole imprese e alle scelte di aziende dotate di forte potere di mercato che decidono di scaricare il contenimento dei costi soprattutto sui salari dei lavoratori».
Quali le politiche da mettere in campo e le proposte concrete di fronte a questo scenario? «Serve un ventaglio di misure, non solo di aiuto economico, ma di prevenzione e di assistenza. Sono convinto che il contrasto alla povertà non possa ridursi né esaurirsi nella erogazione di sussidi monetari, pur necessari, e vanno anche distinti dalle politiche attive per il lavoro. Le esperienze straniere mostrano che i paesi che hanno minori tassi di povertà o li hanno ridotti hanno implementato buoni sistemi educativi e di formazione professionale per giovani e adulti, hanno efficaci misure di orientamento al lavoro e di alternanza scuola e lavoro, danno sostegno ai bassi salari. Queste misure vanno rafforzate in Italia per recuperare i nostri ritardi, per mobilitare utilmente risorse finanziarie così da non scaricare tutto il peso della povertà sull’assistenza».