Nel mondo anglosassone si studia e si affronta da tempo. Nel nostro paese solo da pochi anni, fosse solo perché la lingua italiana si legge così come si scrive. Fu una circolare ministeriale, la 4099 del 2004, a porre la questione, impegnando la scuola italiana a mettere in atto misure speciali. Stiamo parlando della dislessia, un “disturbo specifico dell’apprendimento” che coinvolge non meno del 5% della popolazione. Il profilo del fenomeno è ormai abbastanza noto: difficoltà a leggere, a scrivere e, talvolta, a fare di conto. Non un deficit mentale né una disabilità, ma semplicemente un disturbo neurologico. «Quando una persona usa gli occhiali per leggere, lo definiamo disabile?» - si chiede provocatoriamente Luigi D’Alonzo (nella foto), professore di pedagogia speciale e direttore scientifico del servizio Integrazione studenti disabili e studenti con dislessia dell’Università Cattolica, che dal 2009 ha attivato una particolare attenzione al fenomeno - . Una cosa simile accade al dislessico, che deve trovare degli strumenti per aggirare la trama di quella storia che si ripete abbastanza simile in ogni parte del mondo, come scrive la neuro-scienziata americana Maryanne Wolf nel volume edito da Vita e Pensiero “Proust e il calamaro”: «Un bambino brillante comincia la scuola allegro e pieno di entusiasmo; come gli altri bambini, ce la mette tutta per imparare a leggere, ma a differenza degli altri, per qualche ragione non sembra farcela. I genitori lo spronano a impegnarsi, gli insegnanti dicono che non “rende come potrebbe”, e qualche compagno ne approfitta per dargli dello scemo o del ritardato».
La difficoltà permane anche all’università e nel mondo del lavoro: «Di dislessia purtroppo non si guarisce, ma il disturbo ha una propria evoluzione e può essere compensato», spiega Mara Cabrini (nella foto), consulente pedagogica del servizio insieme ad altri tre colleghi. Oggi in Cattolica gli studenti che si rivolgono agli esperti del centro sono una quarantina tra Milano e Brescia. «Cosa facciamo? Ascoltiamo il loro problema, certificato da specialisti, e proponiamo una consulenza pedagogica che favorisca percorsi e processi di apprendimento per affrontare e superare gli esami senza essere penalizzati dalla loro difficoltà», racconta il professor D’Alonzo. In pratica si tratta di riuscire a valutare insieme le modalità della prova, trovando una soluzione appropriata con i professori delle diverse discipline. «Gli strumenti che adottiamo, così come chiede la circolare del 2004, ribaditi da quella più recente del 2009, sono di due tipi: compensativi e dispensativi». Tra i primi, che corrispondo all’uso degli occhiali per il miope, ci sono i registratori o le penne vocali, i computer con lettore con sintesi vocale e le calcolatrici. La secondo tipologia prevede la dispensa da operazioni impossibili per un dislessico: leggere ad alta voce e scrivere sotto dettatura, più tipici della scuola dell’obbligo, che all’università si traducono soprattutto nella difficoltà a prendere appunti; disporre di tempi troppo brevi per i test; studiare la lingua straniera in forma scritta, che ha dato vita a una specifica mediazione con il Servizio linguistico d’ateneo; farsi valutare più sulla forma che sul contenuto.
«Quello che offriamo è un accompagnamento con competenza - afferma il professor D’Alonzo, anche nella sua veste di presidente della Società italiana di Pedagogia speciale (Sipes) che il 25 e 26 febbraio ha portato centinaia di associati da tutta Italia nell’aula magna di largo Gemelli (ne riferiamo qui a lato) - . Oggi sappiamo come agire e siamo in grado di fornire ai dislessici gli attrezzi per vincere la loro battaglia e inserirsi nel mondo del lavoro sfruttando le abilità che possiedono». Usare le cuffie per “ascoltare” un pc con sintesi vocale è un buon esempio di come anche nel mondo professionale le barriere possono cadere. Così come sono cadute, sia pure a macchia di leopardo e con squilibri territoriali, nella scuola, dove accanto a percorsi formativi splendidi, ci sono anche ritardi. «Generalmente si tende a non dare il sostegno a questi soggetti, anche se alcune volte c’è richiesta di maggiore aiuto – chiarisce il pedagogista -. A me piace sottolineare che non esiste il dislessico o il disabile, ma che c’è una persona in carne e ossa di cui occuparsi e a cui cucire addosso un cappotto su misura. Di certo sarebbe assurdo che le difficoltà economiche compromettessero i grandi risultati integrativi della scuola italiana». Per chi viene accompagnato fin dall’infanzia, il lieto fine non è impossibile, come avvenne per l’asso scozzese di Formula 1 degli anni ’70 che scoprì solo da grande cosa l’aveva umiliato per tutta l’infanzia e che gli avrebbe fatto fare una brutta fine se non si fosse dato con successo alle corse. E come è avvenuto per Edoardo, uno studente di Scienze del servizio sociale che ciha raccontato la sua esperienza dalla scoperta di essere dislessico fino alla sua vita da studente universitario della Cattolica. Senza dimenticare, però, che il lieto fine non è necessariamente la norma. C’è ancora molta strada da fare. Insieme a loro.