Se le nostre giornate e le relazioni si sviluppano sempre più nel mondo digitale, anche la fede non può far finta che non esista. Soprattutto se non vuole perdere il dialogo con la vita. Non a caso sono parecchi i preti che hanno scelto di aprirsi a internet e ai social network. Un fenomeno ormai consistente che non può più essere ignorato. Churchbook è il nome della ricerca che l’Università Cattolica e l’Università di Perugia hanno svolto per conto di WeCa, l’Associazione Webmaster Cattolici Italiani, con l’obiettivo di indagare sulla diffusione dei social network tra sacerdoti e consacrati.
I risultati di questa indagine, o meglio la seconda parte di questi, sono presentati oggi durante un convegno che si tiene in Università Cattolica. «Nel momento in cui il web si è diffuso – spiega Pier Cesare Rivoltella, docente di didattica generale e direttore del Centro di ricerca sull’educazione ai media (Cremit) che ha coordinato lo studio – è nata WeCa, il cui primo atto è stato quello di promuovere una ricerca sui siti parrocchiali che si diffondevano di pari passo con la diffusione di internet. Con l’ascesa di facebook e degli altri social network si è pensato a un’altra ricerca che fosse una prosecuzione della prima e che indagasse in particolare proprio su questo fenomeno. L’indagine Churchbook nasce proprio da qui».
È stata portata avanti per un periodo di tre anni e si è articolata in due fasi. La prima era finalizzata a fornire un panorama generale sulla presenza su Facebook di preti, consacrati e di chi si sta preparando a prendere l’ordine o i voti. La seconda fase, invece, ha cercato di andare più a fondo analizzando i profili di 108 soggetti selezionati e le reti di “amicizie” create da questi ultimi sul web.
I risultati raccontano di una realtà ecclesiastica che cerca di portare il suo messaggio utilizzando al meglio i nuovi strumenti a disposizione: circa il 20% dei preti diocesani, ovvero del clero che risponde al vescovo (parroci, direttori degli oratori ecc…), e dei religiosi, i consacrati che appartengono alle varie congregazioni, ha un profilo Facebook. Questa percentuale sale fino al 59,7% nel caso dei seminaristi che, essendo in media più giovani, hanno una maggiore familiarità col mezzo.
Il professor Rivoltella spiega che l’uso prevalente che i sacerdoti fanno di Facebook è di tipo pastorale-professionale. Non è un caso che il 26,6% degli intervistati ricorra a strategie di rappresentazione per sostituzione scegliendo, per esempio, una foto del profilo che non mostra il viso, ma immagini religiose o che hanno un valore simbolico. «Il loro obiettivo, infatti, non è fare in modo che gli utenti instaurino un rapporto direttamente con loro, ma vogliono che si concentrino sui contenuti del loro profilo» che ovviamente riguardano la fede. Questa dunque non è necessariamente una scelta di mascheramento. Ci sono, ovviamente, delle eccezioni nel caso dei seminaristi che, sempre per via della loro giovane età, tendono a usare il social network anche come mezzo per tenere i contatti con la cerchia di amici “reale”.
Nel report, inoltre, vengono anche individuati i tipi di relazioni che i proprietari dei profili tendono ad avere con gli utenti: c’è chi sceglie la modalità partecipativa e quindi tende a promuovere l’interazione e chi, invece, costruisce dei profili non orientati agli altri, mascherando probabilmente un narcisismo di fondo dietro l’idea di diffondere contenuti religiosi. Quel che è certo è che “chi sei” e “cosa fai” nella vita quotidiana hanno delle evidenti ripercussioni sull’attività sui social network. Il motto potrebbe essere: “dimmi che profilo hai e ti dirò chi sei”.
Gli abstract delle relazioni e della presentazione della ricerca