Precariato e basse retribuzioni. Diseguaglianze di genere nei salari e lavoro nero. Sono solo alcuni dei fenomeni distorsivi che negli ultimi anni, complice la grave crisi economica, caratterizzano il mercato del lavoro non solo italiano, ma anche di altri paesi avanzati. A pagarne le conseguenze le fasce deboli della forza lavoro. Un dato è esemplificativo: nell’Unione Europea è senza occupazione un ragazzo su cinque sotto i 25 anni, con punte particolarmente elevate nei paesi del Sud. Non se la passano meglio i giovani d’oltreoceano: negli Stati Uniti infatti è disoccupato poco più del 18percento degli under 25. Insomma, un fenomeno mondiale quello dell’alto tasso di disoccupazione giovanile che potrebbe avere forti ripercussioni sociali ed economiche, di cui forse l’onda lunga degli “indignados” potrebbe essere un segnale.
Il mercato occupazionale nelle sue diverse sfaccettature è stato il tema portante della XXVI National Conference of Labour Economics, organizzata nelle giornate del 15 e 16 settembre dai docenti dell’Università Cattolica Carlo Dell’Aringa, Claudio Lucifora e Lorenzo Cappellari, in collaborazione con l’Associazione italiana Economisti del lavoro (Aiel). Sul tema si sono confrontati circa 120 relatori, provenienti da prestigiosi atenei nazionali e internazionali, alcuni dei quali tra i massimi esperti di problematiche legate al mercato occupazionale. Nel corso delle varie sessioni parallele, sono state presentate più di un centinaio di ricerche inedite, incentrate sia su temi di grande attualità sia su indagini specifiche dedicate al mercato occupazionale italiano.
Così, guardando all’Italia, emerge la crescita esponenziale dei contratti di lavoro di natura temporanea, passati dal 7% sul totale dei contratti nel 1994 al 13% nel 2010. I risultati sono quelli presentati da Cristina Tealdi, assistant professor in Economia del Lavoro all’Imt, Scuola di Alti Studi di Lucca, e raccolti nello studio “I contratti temporanei hanno cambiato il welfare dei lavoratori?”. Secondo la docente se, da un lato, le riforme avvenute a partire dalla metà degli anni ‘90 hanno incrementato la flessibilità del sistema, contribuendo a diminuire gli elevati tassi di disoccupazione e aiutando l’inserimento di giovani e donne nella forza lavoro, dall’altro, la mancanza di un’adeguata regolamentazione e il conseguente abuso nell’utilizzo dei contratti temporanei ha finito per colpire alcune categorie della forza lavoro, costrette ad assorbire e pagare il costo delle riforme in termini di salari ridotti ed elevato turnover. «Considerando lavoratori con la medesima esperienza, medesime qualificazioni e medesime caratteristiche individuali, coloro che sono assunti con contratti temporanei percepiscono in media stipendi di circa il 20% inferiori rispetto ai lavoratori assunti con un contratto permanente», ha osservato la professoressa Tealdi.
I giovani laureati, però, non sono gli unici penalizzati. A essi si aggiungono donne e immigrati. Lo studio dei ricercatori Chiara Mussida, dell’Università Cattolica, e Matteo Picchio, della Tilburg University, che ha analizzato i divari salariali di genere in Italia dalla metà degli anni novanta al duemila, mostra chiaramente come le riforme del mercato del lavoro abbiano contribuito a esacerbare lo svantaggio delle donne, creando un mercato del lavoro segmentato, ove coesistono lavoratori altamente protetti e tutelati e lavoratori svantaggiati, confinati in occupazioni flessibili. Le donne appartengono al secondo segmento, dove sono evidenti gli svantaggi salariali, soprattutto per le occupazioni meglio retribuite. «Confrontando i dati grezzi relativi al gap salariale fra metà anni novanta e duemila – hanno osservato –, non emergono variazioni di rilievo: gli uomini percepiscono in media il 6% in più delle donne a metà anni novanta, mentre dieci anni dopo la discrepanza è pari al 5%».
Ma anche per gli immigrati esiste un “soffitto di vetro” (glass-ceiling). Lo dimostra una ricerca dei docenti della Cattolica Carlo Dell’Aringa e Claudio Lucifora, e Laura Pagani, dell’Università Bicocca, che si sono concentrati sul differenziale salariale tra lavoratori italiani e quelli stranieri. «In linea con quanto messo in luce dalle precedenti analisi empiriche svolte in altri paesi occidentali – hanno dichiarato gli studiosi –, le nostre analisi confermano che anche in Italia i rendimenti dell’istruzione per gli stranieri sono inferiori rispetto a quelli dei lavoratori italiani: un anno aggiuntivo di istruzione porta mediamente a un incremento salariale del 4% per i lavoratori italiani, mentre per i lavoratori immigrati tale incremento non supera lo 0,7%». Dunque, contrariamente a quanto accade per gli italiani, il capitale umano degli stranieri non aiuta ad accedere a un’occupazione di più alto livello. «L’analisi dei dati mostra che gli immigrati hanno una probabilità più elevata degli italiani di svolgere, a parità di anni di istruzione, occupazioni a bassa qualifica e a bassa retribuzione. Il che indica quanto tutto ciò sia dovuto, più che a una scarsa trasferibilità del capitale umano tra i diversi paesi, alla presenza di fenomeni discriminatori nel mercato occupazionale».
In un contesto lavorativo così “liquido” e privo di certezze, non stupisce allora se si cominciano a sperimentare vie alternative per trovare un’occupazione. Ne sono un esempio i processi di interazioni sociali, al centro del contributo di Lorenzo Cappellari, docente di Economia politica in Cattolica. Secondo l’economista i “network” giocano un ruolo sempre più cruciale nel mercato del lavoro, soprattutto in Paesi come l’Italia, dove esiste un reale problema di flusso di informazioni. Da questo punto di vista, le relazioni sociali possono dare una mano. Attenzione però a non confondere tutto ciò con il sistema delle cosiddette “raccomandazioni”. «L’essere inserito nel “giusto” network, ovvero una rete di amici occupati o introdotti in un determinato contesto lavorativo, facilita il “passaparola” e aumenta le opportunità di trovare un’occupazione. Da un precedente studio condotto con il collega Konstantinos Tatsiramos sul mercato britannico, su dati compresi tra il 1992 e il 2005, è emerso che i network sociali fanno aumentare del 18% le probabilità di trovare un impiego».