Concedere credito è l’obiettivo, ridurre la povertà la missione. Questa è la microfinanza, che negli anni si è dimostrata uno strumento efficace di lotta all’esclusione sociale, contribuendo a far uscire dall’indigenza circa 112 milioni di famiglie milioni di persone e a ridurre la povertà nei Paesi sottosviluppati. Emblematico è il caso della Grameen Bank fondata dal premio Nobel per la pace Muhammad Yunus. A scattare una fotografia della situazione mondiale e italiana della microfinanza è stato il terzo numero dell’Osservatorio monetario, curato dal Laboratorio di analisi monetaria in collaborazione con l’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa (Assbb). Il rapporto è stato presentato lo scorso 23 novembre nel corso del convegno La microfinanza nel mondo e in Italia. Al dibattito, introdotto e coordinato da Marco Lossani, docente di Economia dei mercati emergenti e responsabile del Laboratorio di analisi monetaria, sono intervenuti Filippo Vettorato e Giampietro Pizzo, curatori del rapporto, Gianpaolo Barbetta, docente di Economia dei sistemi di welfare in Università Cattolica, Marco Ratti, di Banca Prossima, e Giovanni Pirovano, di Banca Mediolanum nonché vice presidente di Abi- Associazione bancaria italiana.
Dal rapporto emerge uno spaccato interessante delle principali linee di sviluppo del microcredito e dei risultatati raggiunti, sia a livello mondiale sia nazionale. A fronte di una domanda di servizi di credito di almeno 250 miliardi di dollari, il settore infatti ha ormai sfiorato un tasso di penetrazione del 20% grazie all’esercito di 10mila istituzioni di microfinanza (Imf) attive nei diversi continenti. Queste includono tipologie molto diverse: dalle Ong alle cooperative di credito e risparmio, dalle finanziarie alle banche commerciali. Anche se, osservano i curatori dell’analisi, solo il 2-3% delle Imf sono mature ed economicamente sostenibili e circa il 7-8% sta raggiungendo questo obiettivo.
In Italia, invece, il microcredito è un fenomeno molto giovane e ha iniziato a svilupparsi solo negli ultimi dieci anni: a febbraio 2009, esistevano nel nostro Paese solo due vere Imf comparabili a quelle attive nei Paesi in via di sviluppo: Microcredito di Solidarietà e PerMicro. «C’è un rischio - avverte Marco Lossani -: le istituzioni che si occupano di microcredito in Italia da qualche anno a questa parte si sono orientate a un processo di commercializzazione. Tendono così a rispondere a obiettivi e logiche di mercato con finalità diverse dal carattere strettamente sociale che avevano assunto nei primi tempi della loro attività».
Dando uno sguardo più dettagliato al caso italiano, le Imf comprendono differenti tipologie di enti: cooperative, fondazioni, associazioni, istituzioni finanziarie non bancarie. La principale attività svolta è quella del microcredito, il cui valore si aggirava nel 2009 intorno a quasi 11 milioni di euro in termini di erogazioni complessive (in Europa tutto il settore, nello stesso periodo, muoveva oltre 800 milioni di euro). Quanto ai beneficiari dei crediti erogati, nella gran parte dei casi figurano persone non bancabili o comunque soggetti privi di accesso a servizi finanziari considerati necessari per la partecipazione alla vita economica. Con una differenza: se in Europa il 44% dei programmi di microfinanza indica come target privilegiato le donne, in Italia avviene esattamente il contrario. Non a caso sui fidi le microimprese con titolare donna pagano un tasso di interesse più alto rispetto a quelle con titolare uomo: in media lo 0,3% in più. Il differenziale, si legge nel rapporto, non è giustificato da un maggior rischio di fallimento e non è spiegato da differenze territoriali o da specificità settoriali. Inoltre, la differenza nei tassi scende se c'è un garante uomo e sale se il garante è donna. I curatori dell’indagine ipotizzano che potrebbe trattarsi di una vera e propria forma di discriminazione basata sul convincimento, radicato ma errato, della maggiore inaffidabilità delle donne. Discriminazione del tutto ingiustificata, se è vero che nel Sud del mondo, dove il microcredito è fortemente radicato, sono proprio le donne le principali beneficiarie perché considerate più affidabili.
In ogni caso, sarà nei prossimi cinque anni che la domanda di microfinanza in Italia potrebbe crescere considerevolmente. Il rapporto stima che, grazie a un maggiore coinvolgimento degli istituti di credito, potrebbe toccare la cifra di 45 miliardi di euro, di cui 18 miliardi per le famiglie e 27 per le microimprese, vale a dire la somma considerata necessaria per combattere l’esclusione sociale e finanziaria (in Italia è circa l’11% della popolazione), sostenendo famiglie e microimprese nell’uscita dalla crisi.
Due, comunque, le sfide che dovrà affrontare: la dimensione e l’innovazione. La prima riguarda l’ampliamento del mercato potenziale della microfinanza non bancaria in Italia. La seconda, invece, prevede la sostituzione e l’introduzione di nuovi prodotti finanziari nonché di diversi interventi che riguardano più efficienti rapporti con gli enti pubblici e il mutamento della natura dell’indebitamento delle famiglie, anche attraverso iniziative di educazione finanziaria delle famiglie. L’obiettivo resta uno: trasformare l’indebitamento da onere a opportunità responsabile. Nella speranza che, per dirla con parole di Yunus, “in futuro i nostri nipoti possano andare nei musei per vedere cos’era la povertà”.