A dieci chilometri dal Duomo, appena usciti dalla metropoli, appoggiato alle mura dell’ospedale Sacco, c’è il comune con più residenti stranieri d’Italia: Baranzate, nato nel 2005 dalla scissione da Bollate, al primo posto in graduatoria nazionale con Pioltello, altro municipio del milanese. Ma a Baranzate, dove quasi un abitante ogni cinque è straniero (il 26,5% di 11.144 abitanti, all’incirca tremila persone), l’immigrazione è concentrata in un’area, quella di via Gorizia, poche strade di casermoni tirati su in fretta quarant’anni fa tra capannoni dismessi.
«A Baranzate, l’immigrazione è un nastro trasportatore che scorre verso Nord», spiega Guido Lucarno, docente di Geografia economico-politica dell’Università Cattolica e autore del libro La frontiera dell’immigrazione, realizzato con il contributo dalla Fondazione Ismu. La sua ricerca inizia nel 2003, con un saggio per la rivista Studi e ricerche di Geografia: «Negli anni Sessanta sono arrivati i meridionali. Poi è stata la volta degli albanesi. Da quando è diventato comune autonomo, il paese ha visto aumentare esponenzialmente il flusso di stranieri. Oggi, con la crisi che ha tolto l’80% dei posti di lavoro, convivono 70 etnie diverse».
I numeri dicono che quella in atto è una vera e propria “invasione”. Più della metà degli abitanti, infatti, non è nata in Italia: un terzo proviene dai Paesi dell’Europa dell’Est (romeni, moldavi e albanesi), un terzo è di origine africana (senegalesi e maghrebini), il resto è costituito da asiatici, soprattutto cinesi e filippini. Un ventaglio di nazionalità e culture che rischia di trasformarsi in una bomba a orologeria. «Il clima è teso: la vita nel villaggio Gorizia sta diventando una guerra tra poveri. I servizi sociali devono dividere le risorse fra tutti, ma i fondi non bastano».
Buona parte delle attività sono gestite da stranieri: c’è il kebab turco, la tintoria senegalese, il bazar africano, il ristorante cinese. «Attorno all’altare - racconta don Paolo Steffano, parroco di Sant’Arialdo - alla messa domenicale vedi chierichetti da tutto il mondo. E la prima lettura è sempre in spagnolo o in cingalese». Nell’anagrafe parrocchiale delle abitazioni compare spesso la scritta “unica famiglia italiana”. Ma qui l’integrazione «non puoi sceglierla». «Devi adeguarti, altrimenti soccombi», dice il sacerdote che affronta ogni giorno la battaglia della convivenza, insieme alla Caritas e alla scuola comunale, un istituto omnicomprensivo che accoglie bambini dai 3 ai 13 anni. «È una scuola di frontiera», dice il professor Lucarno. «I bambini extracomunitari sono più della metà, alla faccia della legge Gelmini. Ai residenti, poi, si aggiungono gli immigrati che arrivano durante l’anno. Cinesi e nordafricani che spesso non sanno neppure una parola d’italiano. Così per tamponare le difficoltà linguistiche, i programmi scolastici vengono dimezzati». Una scelta che sconcerta i genitori italiani che scelgono di iscrivere i loro figli nelle scuole dei comuni limitrofi.
Ma a preoccupare i cittadini di Baranzate si aggiunge la presenza del campo rom, separato dal paese da una misera recinzione. «Negli anni i nomadi hanno comprato i terreni di un’ex discarica, una zona malsana in cui hanno costruito abitazioni abusive». Baracche di legno e prefabbricati, ma anche villette con torrette e balconi, dove vivono più di 300 persone. «Ormai sono quasi sedentari e vivono di furti e accattonaggio». Lo sa bene don Paolo, che al villaggio Gorizia fa anche un po’ da psicologo e poliziotto del quartiere. Anche lui è stato derubato non poche volte dai ragazzini del campo di via Monte Bisbino. Ma non demorde e continua a rimproverare - ma anche ad accogliere - i piccoli rom che si ritrovano a giocare in oratorio. A metà via la Caritas della parrocchia offre servizi di ricerca-lavoro; una scuola di italiano per le donne e corsi serali per i lavoratori, che toccano punte di 70 allievi. Inoltre, mette a disposizione di un quartiere di giovani famiglie con figli piccoli, un buon numero di pensionati i cui nipoti vivono in altre città. «Ma un modello d’integrazione non è ancora possibile», afferma Lucarno. «Preferisco parlare di “quotidianità dell’emergenza”, perché spesso la povertà spinge le persone alla solidarietà reciproca. Ma la strada da percorrere è ancora lunga».