Il dialogo tra i professionisti del settore sociale e di quello giuridico, è un aspetto cruciale per il buon esito dei provvedimenti operati su quelle famiglie sottoposte a situazioni di indagine o intervento da parte dei servizi sociali.
A confermarlo è “L'indagine psico-sociale: una ricerca empirica sulle relazioni tra famiglie, professionisti e istituzioni”: la ricerca qualitativa effettuata attraverso una collaborazione tra il Centro di ricerca Relational Social Work dell’Università Cattolica di Milano e l’Associazione Italiana Avvocati per la Famiglia (Aiaf) Lombardia “Milena Pini”, con l’obiettivo di capire in che modo le diverse figure professionali debbano interagire e quali siano, secondo i genitori, gli aspetti positivi e negativi nelle loro personali esperienze.
I risultati sono stati discussi con i rappresentanti delle istituzioni giudiziarie (Tribunale per i Minorenni, Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni, Tribunale Ordinario) e con diversi professionisti, quali psicologi, avvocati e assistenti sociali.
Per fare ciò il focus della ricerca si è basato sulle esperienze di genitori e nonni affidatari direttamente interessanti, raccogliendone le opinioni in merito al percorso d’indagine, alla relazione con gli operatori dei servizi sociali - in particolare gli assistenti sociali - al ruolo degli avvocati come mediatori, e come la sinergia tra le due competenze possa facilitare e migliorare qualitativamente il delicato percorso intrapreso dalla famiglie. Solo in un secondo momento, attraverso una discussione allargata, il raggio d’azione si è ampliato verso una possibile definizione di “buone prassi” di azione.
Le testimonianze raccolte hanno, inevitabilmente, dato maggiore spazio a sentimenti negativi e di difficoltà nella relazione con gli operatori, rispetto al racconto di vissuti favorevoli. La paura che il proprio punto di vista non venga compreso è generalmente fonte di tensione e sfiducia nei confronti degli operatori; mentre fondamentale diviene la serenità nel potersi esprimere liberamente senza che questo abbia conseguenze inaspettate sull’esito del percorso.
Vergogna, timore di essere giudicati, senso di rabbia e ingiustizia, sono alcuni tra i sentimenti più comuni manifestati dal campione di genitori intervistato. Sentimenti comprensibili, generati dalla consapevolezza che essere sottoposti ad indagine comporta un’intrusione nella propria sfera privata.
Ne consegue la paura che questa venga osservata dall’esterno, giudicata e messa in discussione, secondo un’immagine stereotipata – talvolta erroneamente alimentata dai media – secondo cui il nucleo famigliare sottoposto a questo genere di prassi sia composto da genitori inadeguati, pericolosi, incapaci di provvedere ai propri figli.
La ricerca è di stampo qualitativo, pertanto non possibile generalizzare i risultati che, tuttavia, risultano decisamente in linea con quanto emerso della letteratura di settore.