di Carlo Maria Martini *
Il messaggio di Francesco parte da una ben precisa geografia della grazia. Il “Poverello” è stato, una volta tanto, profeta in patria, in Assisi e nell’Umbria. La sua città lo ha amato e lo ama. «Se egli avesse scelto l’eresia», scrive Heinrich Böll, «avrebbe fatto di Assisi la capitale degli eretici». Le pietre dei luoghi da lui toccate parlano ancora oggi di lui. Tuttavia egli rappresenta un evento che va al di là della topografia di una regione. Il suo spirito è italiano, italico, o meglio, mediterraneo. Quando era preso dall’impeto della gioia – dicono le fonti – cantava le lodi di Dio in francese. Era il provenzale imparato dalla madre. E al di là di parentele prossime o remote, noi possiamo dire oggi, considerando l’irradiazione del suo messaggio – e le famiglie che a lui si richiamano, presenti qui in Lombardia da secoli e ovunque nel mondo –, che Francesco ha qualcosa da dire per tutta l’umanità.
Francesco appartiene a tutti, e tutti ci supera. Appartiene alla Chiesa, a una Chiesa sempre da edificare (da riparare, secondo il suo sogno e la prima visione di San Damiano); Francesco appartiene ai suoi figli, sempre alla ricerca del suo più genuino spirito, in santa e talora anche forte emulazione tra loro; Francesco appartiene alla sua società come alla nostra; di lui tutti hanno in qualche modo il diritto di parlare. Amico di chi crede e di chi non crede, amico di sultani e di lebbrosi. Egli è un locus dei, o anche un locus hominis per cui possiamo dire che «quivi», cioè in lui, «è perfetta amicizia». Per questo anche i cattolici, chiamati a confessarlo nella sua fede in Cristo, debbono mettersi in ascolto di quanto altri, e tutti, a qualunque fede appartengano o anche non appartengano a una fede, dicano a ogni secolo intorno a Francesco. Perché nessun uomo e nessun santo parla a tutti gli uomini quanto Francesco. Dopo naturalmente Cristo, il Signore, che di ogni uomo – e quindi anche di Francesco – rimane, per la nostra fede, l’unico esemplare e archetipo.
La scelta degli ultimi
Perché Francesco parla a tutti? Francesco parla a tutti gli uomini perché ama l’uomo, soprattutto gli ultimi tra gli uomini. È sull’uomo, in particolare sull’uomo povero – contemplato in Cristo –, che viene posto con fede pari a fantasia, con tenerezza pari a strenua penitenza, l’accento della scelta di Francesco. Che è una “scelta di classe” senza mai essere una “lotta di classe”. Prima ancora di prendere alla lettera l’invito a restaurare la Chiesa di Cristo «che va in rovina», Francesco ha scoperto – nel lebbroso – il Cristo emarginato ed escluso, il nessuno per nessuno, il “morto sociale e civile”. E ha ricominciato da lui, per la «grazia ricevuta» d’essere stato da lui baciato (cioè da Cristo stesso, come accennerà, con pudore, una sola volta): ma è bastato quell’incontro per rivelargli la strada: «Prima non sapevo cosa fare, ma il Signore stesso mi rivelò di vivere a norma del santo Vangelo» (dal Testamento). «I lebbrosi erano per me cosa da non poter guardare, ma il Signore mi condusse fra loro, e tutto mi si mutò in dolcezza d’anima e di corpo». E “nuovi lebbrosi” non sono forse oggi, oltre ai lebbrosi fisici, tutti gli uomini senza volto, anonimi, dispersi, tutte le minoranze emarginate e indifese?
* Originariamente comparsi su «Vita e Pensiero», nel fascicolo del novembre 1982, gli stralci qui pubblicati sono stati ripresi nell’edizione del centenario della rivista, che ha rilanciato il testo dell’intervento pronunciato dall’allora arcivescovo di Milano in apertura di una manifestazione promossa dal Comune di Milano il 22 settembre di quell’anno, proprio per ricordare l’importante ricorrenza e celebrare il Santo di Assisi