Quasi un italiano su due dichiara che, probabilmente, non si vaccinerà contro Covid-19. Nonostante da mesi virologi, infettivologi, epidemiologi e tutta la comunità scientifica ripetano che la vera arma di difesa da Sars-Cov-2, ma soprattutto l’unico modo per tornare a una forma di effettiva normalità non più scandita da “fasi”, sia la vaccinazione di massa (appena un vaccino sarà disponibile), i dati che emergono da una recentissima ricerca dell’EngageMinds HUB dell’Università Cattolica dicono in maniera sorprendente di una grande fetta della popolazione pari al 41% che colloca la propria propensione a una futura vaccinazione tra il “per niente probabile” o a metà tra “probabile e non probabile”.
Il team di ricerca - svolta nell’ambito del progetto Craft della Cattolica, campus di Cremona - è coordinato dalla professoressa Guendalina Graffigna ed è composto da Greta Castellini, Lorenzo Palamenghi, Mariarosaria Savarese e Serena Barello.
L’indagine non si ferma qui, e tenendo al centro il fatto che 4 italiani su 10 si dicono poco propensi a vaccinarsi, confronta questo inatteso dato con altri elementi che portano l’analisi più in profondità. La ricerca, condotta tra il 12 e il 18 maggio scorsi, su un campione di 1.000 persone, perfettamente rappresentativo di tutta la popolazione italiana e realizzata con metodologia CAWI (Computer Assisted Web Interview), sottolinea infatti che da un punto di vista territoriale lo scostamento tra le diverse aree del nostro Paese sono modeste. Si può solo segnalare che, rispetto al dato nazionale, la propensione a non vaccinarsi risulta leggermente maggiore nel Centro Italia (43%).
Mentre più informazioni di approfondimento arrivano dall’incrocio del dato di base con i fattori socio-demografici. «In generale - spiega la professoressa Guendalina Graffigna, ordinario di Psicologia dei consumi e direttore del centro di ricerca EngageMinds HUB dell’Università Cattolica - i più giovani (34% contro il 41% del totale campione) e i più anziani (29% contro il 41% del totale campione) sono meno esitanti nei confronti della vaccinazione. Più cariche di dubbi, invece, risultano le persone tra i 35 e i 59 anni (48% contro il 41% del totale campione). Dalla ricerca non emergono particolari accentuazioni sulla base della professione: i pensionati e gli studenti si confermano meno diffidenti verso il vaccino; più esitanti invece gli operai e nella media impiegati e imprenditori».
Ma quello che fa la differenza sembra essere la “psicologia”: se confrontiamo le percentuali di chi è poco propenso a vaccinarsi fra i diversi sottogruppi del campione si nota che chi è fatalista nella “gestione” della salute e ritiene che il rischio di contagio da Sars-Cov-2 sia fuori dal suo controllo è ancora più esitante rispetto alla possibilità di vaccinarsi (57% contro il 41% del totale campione), mentre al contrario chi è più “ingaggiato”, si sente primo responsabile nella prevenzione del contagio e risulta più positivo e propenso verso la somministrazione del vaccino. Ma a far la differenza è anche la considerazione della vaccinazione come atto di responsabilità sociale: chi ha un approccio più individualista ed egoista alla gestione della salute e non ritiene il vaccinarsi un atto di responsabilità sociale tende a essere ancora più evitante verso l’ipotesi di un futuro programma vaccinale per Covid-19 (71% vs 41% del totale campione). Al contrario decisamente più propensi della media coloro che ritengono che i loro comportamenti abbiano un valore importante per la salute collettiva.
«Questi dati sono un campanello di allarme di cui tenere conto, soprattutto perché segnalano la necessità di iniziare sin da subito con una campagna di educazione e sensibilizzazione dedicata alla popolazione in cui aiutare a comprendere l’importanza di vaccinarsi contro la Covid-19 - considera Graffigna -. Non si tratta solo di diffondere informazioni o di combattere fake-news sui vaccini». Educare significa mettersi nei panni di coloro che vanno formati, e cioè partire dalle loro preoccupazioni, dalle loro aspettative di conoscenza e dalle loro domande per aprirsi a un dialogo costruttivo tra scienza e cittadinanza volto a rassicurare e sostenere il cambiamento profondo di atteggiamento. «Ciò che va perorato, prima ancora di un atteggiamento positivo verso i vaccini, è la maturazione di un migliore coinvolgimento attivo (engagement) verso la salute e la prevenzione - conclude la responsabile dello studio Guendalina Graffigna -, che passa dalla comprensione di come ogni nostra azione preventiva sia un atto di responsabilità sociale verso la salute della collettività».