di Laura Zanfrini*
L’immigrazione, per sua natura, sfida i confini di una comunità; non solo quelli fisici e politici, ma anche quelli identitari, mettendo in discussione i valori che regolano la convivenza. È dunque inevitabile che, quando si presenta con dimensioni tanto portentose che preannunciano un’evoluzione altrettanto imprevedibile, susciti risposte allarmistiche e tentativi di selezionare profughi e migranti in base ad esempio al background culturale e religioso. Tanto più si può comprendere come le giovani democrazie est-europee, reduci da una storia di ricollocazioni forzate e pulizie etniche e dal sofferto passaggio al post-comunismo, fatichino a ricevere minoranze etniche e religiose di cui non hanno conoscenza diretta, ma soltanto mediata da messaggi allarmistici e dalla paura del terrorismo. Poiché la condivisione di un’identità collettiva è elemento costitutivo di ogni comunità politica, la capacità d’includere nuovi membri viene a mancare quando s’avverte il rischio che essi minino proprio tale identità.
L’emergenza profughi ha fatto dell’Europa un emblema delle ambivalenze e dei fallimenti nella gestione delle migrazioni forzate dell’epoca contemporanea. Culla dei diritti umani e dello stesso istituto del rifugio politico, ma al tempo stesso succube della logica sicuritaria egemone a livello mondiale, nell’impatto con l’esodo biblico di questi mesi l’Europa ha esibito l’arbitrarietà dei suoi confini, interni ed esterni. Se la cosiddetta “gestione integrata dei confini” per il contenimento della pressione migratoria si è realizzata proprio negli anni in cui l’Europa si ampliava e abbatteva i confini interni, oggi, per effetto di una sorta di nemesi storica, sono le esigenze di presidio dei confini esterni a rimettere in discussione l’idea stessa di uno spazio unico europeo.
Benché si tratti di una materia in cui, dagli anni ’90, si erano registrati significativi progressi sul fronte della comunitarizzazione, la gestione delle migrazioni umanitarie ha riportato in prima linea interessi ed egoismi nazionali. Lo stesso, insistente, richiamo “all’Europa” evoca l’esigenza di ripartire tra gli Stati il “peso” dei profughi, piuttosto che l’istanza di condividere la responsabilità di gestire questa sfida epocale. Di fronte all’incapacità strutturale di un sistema stato-centrico nel governo di un fenomeno che, per sua natura, eccede i confini delle nazioni, la forza della disperazione che infrange i muri di filo spinato - e quelli altrettanto invalicabili definiti da leggi e regolamenti – ha imposto una collaborazione che i governi erano stati finora incapaci di costruire. Ma la ricollocazione di poco più di 100mila profughi – è questo l’esito dei recenti vertici europei - resta un traguardo assai più modesto dell’auspicabile ridisegno del governo delle migrazioni secondo logiche non più unilaterali e nazionalistiche, ma coerenti coi valori profondi delle democrazie europee.
Al di là degli attriti tra paesi, le vicende di questi mesi hanno dimostrato come, avendo ridotto il governo dei confini a un compito tecnocratico, valutato in termini di costi economici e di efficienza - ne è emblema la cruda contabilità dei respingimenti, il cui aumento è celebrato come un successo -, l’Europa si è trovata sprovvista di criteri convincenti - ovvero eticamente fondati - per distinguere i rifugiati “autentici” da quelli fittizi. D’altro canto, attraverso una discutibile strategia di esternalizzazione del presidio dei confini nei cosiddetti Stati “sicuri”, e di accordi coi paesi terzi, l’esigenza di contenimento ha prevalso su quella di effettivo governo dei flussi, fino a ritrovarci oggi sguarniti di strumenti - come i canali umanitari - che avrebbero consentito di gestire l’emergenza in un modo più rispettoso della dignità umana, e proteggendo anche chi non può permettersi le tariffe imposte dai trafficanti. Ci è voluta l’immagine straziante del corpo morto di un cucciolo d’uomo riverso su una spiaggia per ricordare all’Europa come si fossero, nel tempo, smarrite quelle istanze di giustizia, equità e libertà che dovrebbero irrorare il delicatissimo tema del governo dei confini.
La distinzione tra migrazioni economiche e umanitarie è oggi sempre più labile e incerta, o addirittura apertamente contestata da quanti affermano l’esistenza di un diritto ad immigrare, fondato su principi di libertà di movimento, di uguaglianza universale, o anche sul diritto a cercare altrove condizioni di vita dignitose quando esse non sono garantite nel proprio paese. Ma rinunciare tout court a tale distinzione certo non aiuta a gestire arrivi di massa come quelli di questi giorni. Inequivocabilmente, nella falla prodotta dalla mancanza di criteri condivisi, hanno buon gioco ad inserirsi i tanti - troppi! - che fanno e incoraggiano un uso strumentale della richiesta di protezione umanitaria, concorrendo a delegittimare gli istituti di protezione e a ridurre le risorse impiegabili per chi si trova nelle condizioni di maggiore bisogno. Senza contare come la convinzione - o la consapevolezza - che siano in molti a utilizzare impropriamente la richiesta d’asilo ha reso l’opinione pubblica sempre meno “accogliente”, fino a compromettere il destino dei “veri” rifugiati. E certamente non servono, a rassicurare i cittadini, affermazioni come “tanto sono soltanto di passaggio, vogliono tutti andare all’estero”, che abbiamo sentito ripetere per mesi dai nostri governanti.
Limitarsi a imporre a un paese o a una comunità locale la “sua” quota di profughi, senza fare i conti con gli “umori” della popolazione, è incauto e poco lungimirante, tanto più quando ad alimentare il rifiuto sono preoccupazioni non solo economiche, ma anche identitarie. Ma è altrettanto necessario non perdere mai di vista come è proprio l’identità più profonda dell’Europa, che ha generato il principio della dignità di ogni persona e l’idea di una solidarietà istituzionalizzata, a rischiare l’imbarbarimento nel momento in cui l’istanza di “difendersi” dovesse avere la meglio su quella di “difendere” chi ne ha più bisogno.
*docente di Sociologia delle migrazioni e della convivenza interetnica