Continua il dibattito aperto dall’articolo dal titolo “Arrivano i robot”, dedicato a come l’intelligenza artificiale sta cambiando noi e il nostro modo di vivere e di pensare

di Silvano Petrosino *

Il confronto sull’intelligenza artificiale rischia costantemente o di sfondare porte aperte oppure di affaticarsi lungo strade fin troppo trafficate e in verità poco interessanti. Le porte aperte sono quelle della nostra quotidianità: già da anni - e per fortuna, bisogna riconoscerlo - l’intelligenza artificiale è presente nella nostra vita, aiutandoci al cellulare, in auto, negli ospedali, durante i viaggi in treno e in aereo. Essa svolge diligentemente il proprio compito, a volte funzionando alla perfezione, altre volte commettendo qualche errore, ma sempre senza avanzare alcuna pretesa salvifica o celare oscure minacce per il genere umano. Le strade trafficate e poco interessanti sono invece quelle percorse dai continui interrogativi sui rapporti tra IA e sentimenti ed emozioni: in futuro anche i robot saranno attraversati dai fremiti del cuore? Anche loro saranno simili agli uomini, e in questo caso non si rischia forse di esporsi al pericolo di un conflitto che difficilmente potrà vedere il prevalere degli umani? Il continuo sviluppo e l’estrema efficacia dell’IA non sono forse una conferma indiscutibile che siamo ormai già entrati nella famigerata «epoca del post-umano»?

Personalmente non riesco ad appassionarmi a questo dibattito, anche perché quando voglio attraversare simili campi preferisco rivolgermi alla letteratura e al cinema di fantascienza, i quali, quando hanno la fortuna di elevarsi fino alle vette dell’arte, riescono a intuire con grande anticipo, se non le soluzioni, certamente alcune delle questioni più interessanti sul tema. Se dunque lasciamo perdere il robot che suona il pianoforte e quello che serve il caffè in veranda, può essere utile cogliere l’occasione di questo confronto per riflettere, ancora una volta e ricominciando come da capo, sulla natura della razionalità umana; in questo senso, di fronte all’espressione «intelligenza artificiale», più che sull’aggettivo, conviene forse soffermarsi sul sostantivo, e cioè sul significato del termine «intelligenza». Come è noto, una delle definizioni più accreditate di quest’ultima è quella che la riconduce alla capacità di risolvere un problema: l’intelligenza è «problem solving» e in quanto tale essa non è un tratto propriamente umano visto che si ritrova, senza alcun dubbio, anche in altri esseri viventi (gli animali, per esempio), e oggi, con ogni evidenza, anche in molti dispositivi tecnologici. Ora, rispetto a questa definizione, e lasciando perdere l’aggrovigliata selva dei sentimenti e delle emozioni, a me sembra che la questione fondamentale che in un certo senso s’impone sia la seguente: la razionalità umana è riducibile alla sola intelligenza? O in altri termini: l’intelligenza esaurisce la capacità razionale di cui l’essere umano, evidentemente non sempre e soprattutto non necessariamente, si dimostra capace?

Anticipando un’affermazione che dovrebbe essere senz’altro meglio giustificata, mi permetto di negare l’identificazione tra razionalità umana e intelligenza osservando che la prima è capace di un’apertura che eccede, e così anche sconvolge, i limiti all’interno dei quali la seconda si muove per risolvere i problemi in cui essa s’imbatte. In questo senso l’uomo sarebbe un essere non solo intelligente ma anche razionale, vale a dire capace di un’apertura e di una relazionalità che a volte sembrano contraddire la stessa intelligenza. Per chiarire brevemente questo punto mi servirò di un esempio fin troppo noto. 

L’uomo e il computer si sfidano agli scacchi. Come si è già verificato, al di là di ogni creatività e brillantezza umane, il computer vince la partita dimostrando così un’intelligenza nettamente superiore a quella messa in opera da un singolo soggetto umano: il computer è infatti in grado di elaborare in pochi istanti una mole di informazioni che nessun uomo potrebbe mai prendere in seria considerazione durante tutta la sua vita. Il punto è proprio questo: il computer non sa far altro che vincere, sempre e in ogni occasione, al di là dell’avversario che sfida; esso risolve sempre a proprio vantaggio il problema in cui lo mette la mossa dell’altro. Diversamente l’uomo, quando per esempio gioca con l’amato figlio o il caro nipote, è capace anche di perdere, o più precisamente: è capace di decidere di perdere, preoccupandosi, se così posso esprimermi, più del consolidarsi dell’autostima dell’altro che non del proprio successo. Tale decisione, quella relativa a un’esplicita volontà di perdere, non è affatto semplice da realizzare poiché essa richiede una razionalità, vale a dire un modo di stabilire una certa relazione, che sappia guardare al di là della difficoltà stessa in cui si trova; saper decidere di perdere implica la capacità di far finta di voler a ogni costo vincere: il figlio o il nipote, infatti, non deve minimamente sospettare che il proprio avversario lo voglia in qualche modo favorire. Se dunque si vuole proprio parlare di una superiorità dell’uomo rispetto al computer, essa deve essere ricondotta soprattutto a questa sorprendente capacità di perdere facendo credere di voler a ogni costo vincere: l’uomo è capace di una razionalità diversa dall’intelligenza messa in atto dal computer proprio perché egli è capace di esaltarsi nella sconfitta, è capace di vincere quando perde, così come è capace di riconoscere che talvolta ha perso proprio nell’istante in cui ha vinto. 

È necessaria una razionalità articolata, sofisticata, sottile e flessibile per non farsi fagocitare dall’urgenza e dalla gravità del problema aprendosi così a una scena, quella dell’altro o quella con l’altro, che è molto più complessa dell’orizzonte all’interno del quale il singolo problema appare come tale imponendo le condizioni stesse della propria soluzione. In tal senso fine ultimo di una simile razionalità non è, sempre e inevitabilmente, la soluzione del problema dato che essa, come ho già accennato, in particolari situazioni può esaltarsi perfino rinunciando a tale soluzione. Nell’uomo, dunque, l’intelligenza è come se fosse con insistenza sollecitata ad allargarsi, ad aprirsi a ciò che si può forse definire ragione: quest’ultima non si fa incantare/incatenare dal problema nella misura in cui, proprio per fedeltà al problema, si sforza di tener conto anche d’altro e dell’altro. La ragione utilizza l’intelligenza ma non si identifica con essa; è anche per questo motivo che l’uomo è un essere essenzialmente inquieto: egli è abitato da una razionalità all’interno della quale la ragione non dà mai pace all’intelligenza. 
     
* docente di Antropologia filosofica, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano


Diciassettesimo articolo di una serie dedicata a come l’intelligenza artificiale ci sta cambiando