Costruire una completa tracciabilità degli scarti alimentari per rendere più responsabile il consumatore nell’acquisto di un prodotto e tenere sotto controllo il consumo di CO2 che generano. Una prospettiva sotto la lente della Fao, che Roberto Zoboli, docente di Politiche economiche per le risorse e l’ambiente della Cattolica, ha presentato per la prima volta nel corso del convegno Convivio. Rappresentazione, senso, esclusione, sostenibilità, che si è tenuto in largo Gemelli a Milano il 7 e 8 marzo. La sua parola d’ordine è “Waste Footprint”. «È semplicemente il parallelo di quanto sta già avvenendo nel caso del carbon footprint per il carbonio e per le emissioni di gas ad effetto serra, e per il water footprint», spiega l’economista. «In questi due casi si sta arrivando a degli standard abbastanza riconosciuti e quindi anche a etichettature o stime comunicabili al consumatore di quale sia l’impronta del prodotto nel suo ciclo di vita: dalle prime fasi fino al consumo quale sia l’emissione di CO2 o il consumo di acqua di un prodotto. Questi “footprint” hanno una crescente importanza all’interno del sistema distributivo: i consumatori hanno un’attenzione crescente verso le caratteristiche anche ambientali del prodotto, e quindi può diventare un criterio di scelta per i consumatori nell’orientarsi verso prodotti che hanno basse impronte di carbonio e di acqua; al tempo stesso il sistema distributivo potrà essere più selettivo nello scegliere i fornitori, ad esempio agricoli, industriali o di altra natura, in base alle loro impronte».
Come si applicherebbe agli scarti alimentari?
Si potrebbe ipotizzare qualcosa di simile anche per i contenuti di rifiuti alimentari o di materie prime agricole alimentari associate ai prodotti finali. Questo potrebbe da un lato segnalare che il prodotto è stato fatto con molti o con pochi scarti, ma dall’altro richiamare l’attenzione del consumatore sul fatto che all’alimentazione è associata una significativa componente di scarti, portandolo quindi ad acquisire consapevolezza sui propri possibili rifiuti o non rifiuti di cibo. Si va in una linea che sta per essere esplorata anche dalla Fao. Ma da un punto di vista operativo richiede avanzamenti tecnici nel tracciare tutti gli sprechi: è un processo molto complicato. Per i colleghi agrari è un’idea interessante anche se non è tecnicamente immediato poter tracciare in modo affidabile queste catene di produzione in termini di scarti.
Il problema del “food waste” è drammatico.
I consumatori dei paesi ricchi sprecano quasi la stessa quantità di cibo che l’Africa sub sahariana produce ogni anno. Secondo la Fao, ogni anno in Europa si producono 190 chili di rifiuti alimentari a testa. Novanta se si guarda solo alla fase di consumo. In termini economici, si tratta di 140 miliardi di euro all’anno. Secondo i nostri studi di quantificazione economica dei cosiddetti sprechi alimentari, e cioè scarti nelle diverse fasi di produzione e rifiuti all’utilizzazione finale dei consumatori, siamo giunti a stime preliminari, che indicano che il loro valore economico può arrivare complessivamente a 20 miliardi. Il dato è del 2009 e nel caso specifico del rifiuto al consumo il valore stimato è di 13 miliardi circa.
Per rifiuto al consumo s’intendono i rifiuti domestici?
Certamente. Una parte di questi scarti al consumo è tecnicamente inevitabile. Non abbiamo una stima per l’Italia, però le stime inglesi e svedesi indicano che circa un 60% potrebbe essere evitabile con comportamenti diversi e stili alimentari diversi.
Quali sono le proporzioni fra lo spreco domestico e quello di filiera?
Nelle catene di produzione agricola e di trasformazione industriale e nella distribuzione la componente degli scarti tecnicamente non evitabili può essere ancora maggiore, semplicemente perché i processi di trasformazione industriale richiedono una certa quantità di scarto. L’aspetto interessante, soprattutto emergente dalle analisi della Fao, che ha pubblicato nel 2011 una serie di stime su scala globale, è che nel caso dei paesi cosiddetti avanzati la maggiore componente di scarto è al consumo, mentre nel caso dei paesi in via di sviluppo la maggior componente è nelle fasi agricole di trasformazione industriale e commerciale. Il che deriva evidentemente da sistemi molto più inefficienti nelle catene produttive: difficoltà nei trasporti, nella conservazione e refrigerazione, che determinano delle grossissime perdite alimentari.
Come fare cultura nella nostra società bombardata dalla pubblicità?
Non abbiamo fatto stime di quanto la pubblicità possa influire sul sovracquisto di beni. Certamente oramai la prevalenza di catene di grande distribuzione favorisce acquisti abbondanti, perché l’impulso all’acquisto di cose di cui non si ha un immediato bisogno o di un numero elevato di confezioni è probabilmente connaturato alla Gdo, che dovrebbe farsi carico di aiutare i clienti a fare acquisti responsabili. Ma la strada è ancora in salita.