«“Critico televisivo”, “intellettuale”: sono qualificazioni rattoppate e parole inadeguate ma non ancora sostituibili, cui purtroppo bisogna ricorrere, di necessità, per tratteggiare un profilo del ‘dissodatore’ Aldo Grasso, per cercare gli elementi originali e più creativi della sua attività non troppo dissimile, in molti casi, da quella del rabdomante». Così Lorenzo Ornaghi descrive il professor Aldo Grasso in occasione dei festeggiamenti per il 70esimo compleanno. Quelle che riportiamo di seguito sono le parole che l’ex rettore dell’Università Cattolica ha scritto per il volume degli studi in suo onore, edito da Vita e Pensiero, che verrà presentato nel convegno “La TV di ieri di oggi di domani” in programma martedì 14 maggio nell’aula Pio XI in largo Gemelli.


di Lorenzo Ornaghi 

Gli scritti giornalistici di Aldo Grasso non sono mai, semplicemente, un atto di giornalismo. E i libri, che egli ha fatto nascere dentro e per l’università, detestano gli smunti panni, prediletti e talvolta imposti dalle più ottuse fra le convenzioni accademiche. Aldo Grasso è simultaneamente ‘critico televisivo’ e ‘professore universitario’. Senza che l’un mestiere palesi incongruenze o tradisca stridenti interferenze rispetto all’altro. Soprattutto, senza che il ‘lavoro intellettuale’ sembri alla perenne e sempre infruttuosa ricerca di uno stabile squilibrio fra due distinte vocazioni, anziché guidato da una sola.

‘Critico televisivo’, ‘intellettuale’: sono qualificazioni rattoppate e parole inadeguate ma non ancora sostituibili, cui purtroppo bisogna ricorrere, di necessità, per tratteggiare un profilo del ‘dissodatore’ Aldo Grasso, per cercare gli elementi originali e più creativi della sua attività non troppo dissimile, in molti casi, da quella del rabdomante. Perché Aldo Grasso non sarebbe il critico e il professore universitario che è, se egli non avesse coltivato e insegnato, insieme con la mai facile pratica di rovesciare a mo’ di un guanto gli stereotipi collettivi o individuali, la tenace diffidenza nei confronti dei convincimenti gregari e la ripulsa di ogni cedimento all’accidia concettuale o verbale. Anche per questo, credo, egli appartiene di diritto al drappello sparuto di quegli ‘intellettuali’ che, liberi dagli obblighi derivanti dall’affiliazione a un clan o dall’appartenenza a una pseudo-corporazione (e caparbiamente persuasi, proprio per la loro posizione solitaria, del dovere di allontanare da sé come fosse la peste qualsiasi velleità divinatoria o tentazione demiurgica), hanno professato la vocazione, in questi nostri decenni, alla maniera in cui un tempo veniva intesa la geistige Arbeit. Come un ‘lavoro’, cioè, che intreccia una riconosciuta condizione di privilegio a una persistente, consapevole insoddisfazione (e talvolta sofferenza) personale. Un lavoro che è, e sempre esige, l’aspro esercizio di analisi critica del proprio pensiero e delle proprie opinioni, delle parole e degli aggettivi che comunicano l’uno e le altre, del proprio atteggiamento tendenzialmente dubbioso, in definitiva, nei riguardi delle più evidenti apparenze di cui si ammantano tutti gli individui e qualunque spicchio della realtà in cui siamo immersi.

La ‘realtà’ del presente è ciò che ha sempre interessato maggiormente Aldo Grasso. Per comprendere e descrivere la realtà, tuttavia, non basta scrostarla dalle finzioni che in ogni epoca vorrebbero renderla meno monotona, dalle ideologie che la deformano, dai tanti ‘come se’ con cui cerchiamo non solo di aggirare il macigno delle incertezze o dei dilemmi suggeriti dalla ragione, ma anche di attenuare le non sempre giustificabili frustrazioni imposte dalla ragionevolezza. Occorre qualcosa di più, se vogliamo che la realtà del presente non si disperda tutt’intera nei suoi frammenti; o che non evapori con rapidità pari a quella del dissolversi delle immagini e figure con cui ciascuno di questi frammenti s’impone alla nostra attenzione, pretendendo così di fermare perennemente nel tempo la propria occasionale esistenza. Bisogna avere, difatti, l’umiltà e la grande pazienza di raccogliere una scheggia dopo l’altra, di accostare i differenti tasselli di una realtà che altro non è se non l’infinitesimo e mai replicabile segmento di storia dentro il quale scorre la nostra vita.

Come non farci, però, ingenuamente sedurre dalla realtà o fuorviare da quei suoi frammenti che, più di altri, sembrano importanti nel presente e per l’incombente futuro? Fra le dure reazioni, con cui giustamente la realtà mortifica ogni presunzione di poterla conoscere interamente e una volta per tutte, vi è certamente la folla di quei ‘segni’, che noi confidiamo ci avvertano della corretta stratificazione di ogni cosa o evento, mettendoci in guardia dal credere che gli strati ritenuti più nascosti siano di necessità i più consistenti e interessanti, o viceversa. I segni sono spesso volubili e talvolta contraddittori. Anche le immagini sanno essere capziose. Ne erano già ben consapevoli gli antichi greci, quando distinguevano l’icona non ingannatrice dall’immagine sacra (àgalma) e dagli eidola, immagini subdolamente false e insidiose. Per non girare a vuoto – stupidamente spensierati, o via via sempre più malinconici e magari sconfortati – nei tanti labirinti della realtà, è necessario conoscere la storia non solo dei frammenti e delle schegge, ma anche della massa enorme di segni, immagini e simboli, che aiutano a svelare la realtà o invece la camuffano.

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