Pubblichiamo il testo integrale della prolusione che il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Sua Santità, ha tenuto in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico dell'Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano, 28 novembre 2019)


di Pietro Parolin *

1.    Ringrazio sinceramente per l’invito rivoltomi dal Rettore Magnifico a partecipare a un evento così importante e centrale nella vita di questa Istituzione accademica, stimato strumento nella formazione delle giovani generazioni, con una identità saldamente ancorata alla realtà italiana, che non manca, però, di aprirsi ad una dimensione globale. E se questo è vero per il profilo della ricerca e della didattica nei diversi settori disciplinari, emerge anche nel fatto che l’Università Cattolica del Sacro Cuore resta custode dell’impegno della comunità ecclesiale italiana a collegare, attraverso l’attività accademica, il messaggio cristiano alle differenti scienze e discipline. Un aspetto essenziale della sua identità che è chiamata a rinnovarsi continuamente per essere in grado di cogliere quanto emerge nel dibattito culturale e dare risposte congiunte alla testimonianza di fede. La dottrina della Chiesa, ben cosciente dell’autonomia delle realtà temporali chiama, infatti, il popolo di Dio attraverso tutte le possibili vie a favorire la necessaria interazione tra la scienza, con le sue teorie e le sue scoperte, e la visione cristiana “affinché il senso religioso e la rettitudine morale procedano di pari passo con la conoscenza scientifica e con il continuo progresso della tecnica” (CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, 62)

La Chiesa, del resto, pone grande attenzione agli sforzi che quotidianamente si compiono nell’ambito della conoscenza e del sapere, non mancando però di valutarne di volta in volta il senso e la portata. E questo per incoraggiare che soluzioni e vantaggi siano adottati per il bene della persona, delle sue aspettative, dei suoi diritti fondamentali, sapendo così di concorrere a quella coesione sociale oggi tanto necessaria e attesa. Il futuro di un Paese, infatti, si potrà edificare solo attraverso l’impegno comune delle sue diverse componenti volto a favorire lo sviluppo, la crescita, la formazione, la competenza, ma senza sacrificare la stabilità delle istituzioni e il rispetto della loro azione, e mai dimenticando i valori che sono parte della identità di un popolo e di una nazione. Questo consentirà anche di fronteggiare e superare le avversità e le sfide che ogni èra propone, evitando così che possano trasformarsi solo in veicoli di insicurezza o di rassegnazione. Un metodo che domanda un ruolo attivo dell’Università non pensata più come dispensatrice di un sapere teorico o come ambiente che si compiace dei traguardi conquistati dai suoi studenti o dai suoi docenti, ma Università come soggetto capace di aprirsi non solo alle sfide, ma di superare anguste barriere attraverso lo studio, la conoscenza e l’analisi di quanto la circonda. Così operando potrà trovare sempre più pieno compimento l’appellativo di “cattolica” che la contraddistingue: “per quella sorta di universale umanesimo, l’Università cattolica si dedica completamente alla ricerca di tutti gli aspetti della verità nel loro legame essenziale con la Verità suprema, che è Dio” (GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae sulle Università cattoliche, 4), come ricorda la “Carta programmatica” delle Università cattoliche.

Sono solo brevi considerazioni sulla dimensione e la missione di una Università cattolica chiamata a concorrere alla edificazione di prospettive sempre nuove per la comunità degli uomini. Considerazioni che ci riportano ad una riflessione di Papa Francesco che chiama il mondo universitario ad operare in modo da incarnare la Parola di Dio per la Chiesa e per l’umanità, arricchendo però tale mandato di un più ampio traguardo. Dice infatti il Papa: “E’ importante che studenti e docenti si sentano pellegrini chiamati ad annunciare la Buona Novella a tutte le genti, non avendo paura di rischiare e di sognare la pace per tutte le persone e tutte le nazioni” (FRANCESCO, Il desiderio di pace, Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense, 12 novembre 2018). Anche la pace, dunque, è obiettivo essenziale della vita universitaria e delle sue diverse componenti e funzioni. 

Permettetemi, allora, in questo momento che ufficialmente apre un nuovo anno di studio, ricerca e attività, di soffermarmi e proporvi alcune riflessioni sul lavoro a favore della pace esercitato dalla Santa Sede e dalla sua diplomazia. Non si tratta solo di narrare la natura dell’azione diplomatica che da sempre il Vescovo di Roma per mezzo di suoi Rappresentanti esercita, ma di sottolinearne la funzione e l’apporto rispetto alle situazioni contemporanee e alla capacità di incidere sui problemi concreti. 

La pace infatti, se resta “anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi” come la descrive San Giovanni XXIII nella Pacem in terris, non si slega dai fatti, dai contrasti e dalle esigenze del vivere quotidiano di cui protagonisti o almeno spettatori sono le persone, compresi i diplomatici. Lo ha spiegato molto bene Papa Francesco la scorsa domenica, recandosi in due luoghi simbolo, Hiroshima e Nagasaki, dove per la prima volta si fece uso bellico di armamenti nucleari per porre fine a una guerra: “La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani” (FRANCESCO, Messaggio sulle armi nucleari, Atomic Bomb Hypocenter Park, Nagasaki, 24 novembre 2019). Una posizione chiara e collocata nella scia di quegli elementi già sottolineati dallo stesso Pontefice riguardo alle doti e ai comportamenti personali di coloro che, come i diplomatici, sono chiamati ad essere operatori di pace. A loro si domanda di ispirare ogni comportamento all’umiltà, alla dolcezza e alla magnanimità, perché “non si può dare la pace senza l’umiltà. Dove c’è la superbia, c’è sempre la guerra, sempre la voglia di vincere sull’altro, di credersi superiore. Senza umiltà non c’è pace e senza pace non c’è unità” (FRANCESCO, Omelia a Santa Marta, 21 ottobre 2016). Un’indicazione da cui si ricava la diretta correlazione tra la pace e l’azione diplomatica nella quale è evidente che gli atteggiamenti personali sono essenziali veicoli di pace, anche quelli in apparenza di minor rilievo.

2.    L’esperienza ci mostra che in quanti si avvicinano all’azione diplomatica della Santa Sede è sempre presente un interrogativo: per quale fine agisce la diplomazia pontificia? Per dare risposta si possono qui richiamare ragioni storiche – credo che siano ancora valide le argomentazioni del Balladore-Pallieri e del Vismara, illustri docente di questo Ateneo (Cf. G. BALLADORE PALLIERI - G. VISMARA, Acta Pontificia Juris Gentium usque ad annum MCCCIV,  Vita e Pensiero, Milano 1946) – e affermare che si tratta di un’azione proseguita in continuità nel corso dei secoli o magari la si può leggere seguendo il corso degli avvenimenti e delle decisioni adottate. Spesso, però, si tralascia di indicare che siamo di fronte ad un’azione sviluppata seguendo le forme della diplomazia permanente che hanno visto e vedono la Santa Sede parte di quella rete di relazioni stabili tra le Nazioni che, con tutti i limiti possibili, rappresenta anche oggi uno strumento a servizio della umana convivenza e della sua aspirazione alla sicurezza, alla stabilità, alla pace. La diplomazia pontificia, infatti, pur saldamente ancorata dalla sua natura a compiti anzitutto ecclesiali che la pongono a servizio della missione universale della Chiesa, resta proiettata nell’opera di garantire l’ordinata convivenza mondiale, quell’auspicata pace che, lungi dall’essere equilibrio, è in primo luogo sinonimo ed effetto della giustizia (Cf. CONCILIO VATICANO II, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, 78). 

Certo, nel caso della diplomazia pontificia va sempre ricordato che essa costituisce strumento essenziale per la vita interna della Chiesa, e cioè per la realtà di una comunità di credenti con il suo assetto spirituale e societario tra di loro uniti da un vincolo inscindibile. Con il suo servizio, infatti, il Rappresentante Pontificio svolge una diretta collaborazione con la missione del Successore di Pietro, manifesta cioè in modo visibile l’interesse e la sollecitudine che il Papa ha per le Chiese locali presenti nelle diverse Regioni. Attraverso il suo Rappresentante, il Vescovo di Roma instaura un rapporto vitale e necessario che contribuisce a far emergere la vera immagine della Chiesa, quale realtà di comunione tra il centro e la periferia. Una comunione che oggi Papa Francesco vede come strumento per superare le diversità e prevenire gli antagonismi o le divisioni, indicando che la funzione del diplomatico impone “di rimanere imparziale e obiettivo, affinché tutte le parti trovino in lui l’arbitro giusto che cerca sinceramente di difendere e tutelare solo la giustizia e la pace, senza lasciarsi mai coinvolgere negativamente” (FRANCESCO, Discorso all’incontro con i Nunzi Apostolici, 13 giugno 2019). 

Il collegamento alla pace è continuo e permette di leggere la cifra sulla quale la diplomazia pontificia, seguendo le norme e il linguaggio che della diplomazia sono propri, si struttura per trasformare la pace da solo sentimento a metodo: favorire una coesistenza internazionale fatta di amicizia, rispetto, attenzione reciproca. Come è facile intuire, credo che per cogliere la relazione tra diplomazia pontifica e pace, bisogna anzitutto evidenziare questo metodo e non solo di ricordare episodi. Questi ultimi, infatti, non mancano e sono altresì noti, diversamente dai criteri, dalle riflessioni e dalle finalità ultime che li determinano o li ispirano. 

Guardando alla struttura della diplomazia pontificia, dunque, l’obiettivo della piena comunione tra il Romano Pontefice e le chiese locali non solo è essenziale per la vita e le attività di queste ultime, ma ne è la caratteristica anche quando essa opera con i diversi Paesi e di conseguenza con i Governi. La comunione nella Chiesa e della Chiesa è essenziale ai modi di annuncio della Buona Novella a tutte le genti ed è la base di ogni dialogo. 

Ed è proprio il dialogo che, da sempre, anche nelle situazioni più difficili è voluto, si instaura e sviluppa anche in ragione della pace. Potremo dire che per la Santa Sede si tratta di un impegno strutturato, volto cioè a conoscere i fatti e le situazioni interpretandole alla luce dei principi evangelici e delle regole internazionali, non tralasciando mai gli elementi che pur minimamente possono favorire la concordia e non la contrapposizione, la soluzione delle dispute e non il loro allargamento. La Santa Sede con la sua azione diplomatica sarà “sempre disponibile a collaborare con quanti si impegnano per porre fine ai conflitti in corso e a dare sostegno e speranza alle popolazioni che soffrono” (FRANCESCO, Discorso al Corpo diplomatico, 9 gennaio 2017)

Ho poc’anzi fatto cenno alla grande enciclica sulla pace di San Giovanni XXIII di cui sono noti i frangenti storici che ne motivarono la redazione: il pericolo di una nuova guerra mondiale dagli esiti imprevedibili, la corsa verso armamenti sofisticati e spettrali negli effetti, la crisi tra le due superpotenze del tempo. Ma spesso si dimentica quanto il diplomatico Angelo Roncalli si sia sempre adoperato per la pace nel suo servizio in Bulgaria, Turchia, Grecia, Francia. Lo testimoniano i contenuti nel suo Giornale dell’anima, lo scrigno letterario dove egli amava annotare fatti e circostanze che lo coinvolgevano nella sua missione di diplomatico pontificio. Ebbene, basta leggerne poche righe per aver chiaro quale peso avesse il suo desiderio di operare a favore della pace. Il 26 novembre 1940, nel pieno della seconda guerra mondiale, scrive: “La legge della vita per le anime e per i popoli determina la giustizia e l’equilibrio universale, i limiti nell’uso delle ricchezze, dei godimenti, della potenza mondana. A misura che questa legge è violata, si applicano automaticamente le sanzioni che sono terribili ed inesorabili. Nessuno Stato vi sfugge. A ciascuno la sua ora. La guerra è una delle più tremende sanzioni. Essa è voluta non da Dio, ma dagli uomini, dalle nazioni, dagli Stati per mezzo di chi li rappresenta. La guerra è voluta dagli uomini, ad occhi aperti, a dispetto di tutte le leggi più sacre. Per questo è tanto più grave. Chi la determina, chi la fomenta è sempre il «princeps huius mundi» (Gv 12,31) che nulla ha a vedere con Cristo, il «principe della pace» (Is 5,6)” (GIOVANNI XXIII, Giornale dell’anima, n. 748). 

Un’indicazione che ci porta alle radici più profonde della diplomazia pontificia e che permette di ritrovarne il metodo, valido ancora oggi pur di fronte alle molteplici realtà, anche dolorose, presenti nelle relazioni internazionali. La guerra, la violazione dei principi e delle norme, la perdita del senso di umanità sono realtà che viviamo e alla quali si accompagnano incertezze e prospettive buie. Di fronte a tale quadro per la Santa Sede l’obiettivo è di rendere operante la visione cristiana e il magistero ecclesiale, coniugandolo sempre alla relazione tra il governo centrale della Chiesa e le realtà locali con le loro esigenze e peculiarità.  

Un compito che, quando si tratta di edificare la pace in concreto, si esprime con una metodologia basata sulla conoscenza, la perseveranza e il discernimento, nel quale anche l’annuncio della Parola e la dimensione ecclesiale trovano spazio e tutela. Anzitutto per garantire alla Chiesa di poter proseguire nella sua missione di annuncio del Mistero della Salvezza. Conoscenza, perseveranza e discernimento, poi, sono essenziali in un ambito come quello diplomatico dove l’ansia di prevenire e risolvere controversie per instaurare una pacifica coesistenza convivono con l’affermazione di interessi di parte da cui consegue il mancato reciproco ascolto tra le parti e la volontà di sottrarsi al dialogo. E questo anche se sono a tutti noti gli effetti positivi che dall’ascolto e dal dialogo discendono. 

3.    Lo scenario delle relazioni internazionali è in genere descritto come luogo d’incontro e di dialogo tra visioni politiche, economiche, culturali e finanche religiose diverse. Ed è in questa diversità che continua a trovare ispirazione qualunque azione volta a garantire il futuro dei rapporti tre le nazioni, come pure la loro stabilità, per favorire quello che il magistero della Chiesa identifica come “ordine internazionale”. Si tratta di quel complesso di valori e principi fondamentali, comuni ai diversi popoli e civiltà che costituiscono l’asse portante del diritto internazionale, da cui discendono e si affiancano norme consuetudinarie o derivanti da trattati o convenzioni, quali espressioni del comportamento e della volontà dei membri della Comunità delle Nazioni.

Per i diplomatici del Papa, pertanto, l’obiettivo della pace si scinde da una generica domanda di pace, e si concretizza anzitutto nel prevedere i presupposti e le modalità che possono favorirla. Forse è anche per questo che le parti in lite nel fare appello a una vera e propria riconciliazione per porre fine a conflitti, invocano un diretto coinvolgimento della Santa Sede. In questi casi essa opera favorendo un vero dialogo, anche quando il dialogo presuppone la presenza e l’apporto di chi è scomodo o di chi, secondo una visione tradizionale, non sembra avere la legittimità di attore in un negoziato. Il dovere di non escludere, ma includere la diplomazia pontificia lo si sperimenta e lo si vive attraverso lo sforzo di coniugare la buona volontà delle tante parti in conflitto per avviare la pacificazione. Penso tra i casi più recenti al processo di pace iniziato in Colombia dove la diplomazia pontificia non ha mancato di offrire un contributo; o alla situazione in Nicaragua, che vede il Rappresentante del Papa nel Paese partecipare come “osservatore” ai colloqui per la riappacificazione nazionale; come pure al ruolo che si svolge nelle cicliche crisi in Paesi dell’Africa, come nel caso del Mozambico oggetto di attenzione del Santo Padre nel recente viaggio in quel Paese. 

Parimenti tale orientamento è rilevabile sul piano multilaterale, come dimostra il fattivo apporto fornito alla elaborazione dei Global Compact sulle migrazioni, l’asilo e il più vasto capitolo della mobilità umana o il perseverante sostegno agli sforzi per regolare il disarmo e l’uso di armamenti dagli effetti distruttivi e lesivi del tradizionale principio di umanità che ispira la regolazione dei conflitti. 

Ebbene questa azione, che volutamente sfugge alla notorietà, segue il criterio di collegare l’expertise in umanità – come amava definirla Paolo VI – ad una cura, ad un’azione pedagogica svolta verso le parti che si combattono o contrappongono. Il tutto perché queste ispirino la loro condotta al riconoscimento dell’autorità del diritto internazionale ad iniziare dai suoi principi fondamentali dell’uguaglianza sovrana, dell’integrità territoriale, del non uso della forza, come pure della cooperazione finalizzata ad uno sviluppo pensato in loco e perciò preparato ad utilizzare al meglio gli apporti esterni. Un’opera certamente complessa, ma che inserisce l’azione della Santa Sede in quella diplomazia operativa che coinvolge gli Stati nei rapporti reciproci, come pure nella loro presenza ed azione nelle Istituzioni multilaterali.

Operare secondo tali modalità fornisce alla Santa Sede la piena coscienza di non esercitare un potere, né di cercare privilegi di sorta. Del resto sarebbe un esercizio assai modesto visto lo specifico della sua natura e della sua missione, assai diverse da quelle degli Stati. Essa agisce per sentirsi parte della vita e dei bisogni essenziali della famiglia umana, come pure della società di un Paese, per essere vicina alle famiglie, ai gruppi di ogni ispirazione e credo, e non solo alle comunità di cattolici. 

Nel rivolgersi al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, il 7 gennaio 2019, Papa Francesco ha offerto ulteriore luce a tale impostazione: “L’obbedienza alla missione spirituale, che sgorga dall’imperativo che il Signore Gesù ha rivolto all’apostolo Pietro: «Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15), spinge il Papa – e dunque la Santa Sede – a preoccuparsi dell’intera famiglia umana e delle sue necessità anche d’ordine materiale e sociale. Tuttavia, la Santa Sede non intende ingerire nella vita degli Stati, bensì ambisce ad essere un ascoltatore attento e sensibile alle problematiche che interessano l’umanità, con il sincero e umile desiderio di porsi al servizio del bene di ogni essere umano” (FRANCESCO, Discorso al Corpo diplomatico, 7 gennaio 2019).
 
La diplomazia pontificia, cioè, nell’affiancare l’esperienza della Chiesa agli strumenti messi a disposizione dal diritto internazionale, mostra quanto ha a cuore le sorti della pace nelle sue diverse declinazioni. Per questo sostiene gli sforzi volti a ricercare la soluzione pacifica delle controversie, lo sviluppo integrale e non la sola crescita economica, il rispetto dei diritti umani, la cura della casa comune. 

Qualcuno potrebbe obiettare che si tratta di obiettivi teorici o comunque poco inclini ad essere perseguiti nella pratica internazionale fatta piuttosto di soluzioni pragmatiche. Ma quanto può durare una pace imposta dalla forza delle armi? Quale sviluppo possono raggiungere popoli e Paesi se sono solo destinatari di aiuti e assistenza legati alle urgenze? Non è difficile capire che l’antitesi al conflitto sta nella rimozione delle cause che lo scatenano e quindi nel rendere operativi mezzi necessari, in molti casi già noti e previsti; o che il sottosviluppo e la povertà sono conseguenza di carenze strutturali, di formazione insufficiente o addirittura assente, e dell’indisponibilità di tecnologie adeguate. 

4.    La Santa Sede, e quindi la sua diplomazia, sono portatrici della convinzione che l’azione internazionale deve uscire dalla logica di agire solo di fronte alle emergenze, magari per tamponarle momentaneamente. L’idea di sostenibilità che oggi tanto si proclama, deve diventare reale non solo nel fronteggiare in continuità i problemi e le sfide, ma nel programmare le soluzioni necessarie. Si potrà certamente sostenere che il traguardo è ambizioso, ma non negare che è quanto il diritto internazionale richiede alla diplomazia. 
Inoltre, se guardiamo ai vantaggi che ne potrebbero derivare per la comunità dei popoli, un tale impegno diventa essenziale e ogni dubbio si dissolve. Si tratta, dunque, di fornire un sostegno ragionato ed effettivo, basato sulle regole e attento al loro rispetto, consapevole che la causa prima e la finalità ultima di ogni azione umana è la persona nella sua dimensione materiale e spirituale, individuale e comunitaria. 

Permettetemi su questo punto di sottolineare che le analisi, i commenti e anche il convincimento di coloro che decretano la crisi della diplomazia – lo sentiamo quotidianamente risuonare nei media – non possono ignorare le necessità di uno strumento, forse l’unico, che consente un rapporto permanente tra sovranità, ovvero tra chi rappresenta la sorte di popoli e nazioni. Quanto emerge oggi nelle relazioni internazionali rende tutti consapevoli che l’attività diplomatica può avere il suo peso e i suoi effetti solo quando riesce ad essere efficace strumento di servizio alla causa dell’uomo e non semplicemente all’interesse nazionale. Questo comporta lo sforzo quotidiano volto non solo a conoscere le situazioni, ma ad interpretarle e così fornire le soluzioni necessarie, anche quando tutto sembra oscuro e ogni intervento impossibile. Papa Francesco, proprio di fronte alle difficoltà, affida alla diplomazia il compito di sviluppare idee originali e strategie innovative “affinché, con una maggiore audacia creativa, si ricerchino soluzioni nuove e sostenibili” (Discorso al Corpo Diplomatico presso la Santa Sede, 11 gennaio 2016). Un’indicazione essenziale che pensa ad una diplomazia viva, che opera come strumento privilegiato per costruire la pace superando crisi e risolvendo contrasti, ma anche unendo idee divergenti, posizioni politiche contrapposte, e finanche visioni religiose distanti. 

Rispetto a quest’ultimo aspetto che mi sembra essenziale per la vitalità della diplomazia, vorrei fare riferimento ai diversi modi con cui la Santa Sede agisce attraverso gli strumenti e gli ambiti delle relazioni internazionali.

Anzitutto l’azione profetica svolta dal Romano Pontefice attraverso indirizzi dottrinali, nei viaggi apostolici, nella relazione con Capi di Stato e di Governo, con autorità pubbliche, nelle visite alle sedi di Organizzazioni internazionali. E qui i riferimenti alla pace sono tanti, come testimoniano le encicliche Pacem Dei munus pulcherrimum di Benedetto XV del 1920 e la menzionata Pacem in terris del 1963, come pure i discorsi all’ONU di Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco, tutti con sfumature e accenti diversi, accomunati però da un unico indicatore: “Se si rispetta e si applica la Carta delle Nazioni Unite con trasparenza e sincerità, senza secondi fini, come un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e non come uno strumento per mascherare intenzioni ambigue, si ottengono risultati di pace” (FRANCESCO, Discorso all’Assemblea Generale dell’ONU, 25 settembre 2015)

Poi lo stabilire relazioni diplomatiche con gli Stati, oggi ben 180 con tradizioni, visioni religiose e ideologiche diverse. La Santa Sede sa bene che l’attuale configurazione della Comunità internazionale non è più quella della “Communitas gentium christianarum” in cui si sviluppò la moderna diplomazia e nella quale “ad Papam pertinet facere pacem inter principes christianos”, ma è una realtà plurale nelle concezioni e nei modi di intendere. Questo le impone di ricercare i punti di contatto rispetto alla dottrina della Chiesa, quei semina Verbi, i “raggi della Sua verità” come ebbe a definirli San Giovanni Paolo II (SAN GIOVANNI PAOLO II, Udienza generale del 22 ottobre 1986, 4). Non si tratta, dunque, di sostituirsi ad altre istanze che operano nel contesto internazionale, né di venir meno all’imperativo “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15). Significa piuttosto che il Rappresentante Pontificio è chiamato, tra l’altro, a farsi interprete della “sollecitudine del Romano Pontefice per il bene del Paese in cui esercita la sua missione; in particolare deve interessarsi con zelo dei problemi della pace, del progresso e della collaborazione dei popoli, in vista del bene spirituale, morale e materiale dell'intera famiglia umana” (SAN PAOLO VI, Motu Proprio Sollicitudo Omnium Ecclesiarum, L’ufficio dei Rappresentanti del Pontefice Romano, IV. 2).

Non da ultimo va considerata la presenza nelle Organizzazioni intergovernative universali, regionali o di gruppo, la cui competenza spazia nei diversi settori in cui si manifestano gli interessi dei Paesi e quelli più generali della famiglia umana. La presenza nel multilaterale consente alla Santa Sede di perseguire il grande obiettivo della pace declinandolo nelle sue diverse sfumature: dal disarmo allo sviluppo, dall’educazione alla proprietà intellettuale, dal commercio alle telecomunicazioni e si potrebbe continuare. La Chiesa ne sostiene da sempre l’importanza e la funzione, come ha fatto di recente Papa Francesco che interrogato sul ruolo delle istituzioni internazionali ha sottolineato: “Quando noi le riconosciamo e diamo ad esse la capacità di giudicare a livello internazionale – pensiamo al Tribunale Internazionale dell’Aja o alle Nazioni Unite –, quando si pronunciano, se siamo un’unica umanità, dobbiamo obbedire. […] Per questo sono state create le Nazioni Unite, sono stati creati i tribunali internazionali, perché quando c’è qualche conflitto interno o fra i Paesi si vada lì per risolverlo come fratelli, come Paesi civili” (Colloquio di Papa Francesco con i giornalisti sul volo di ritorno da Antananarivo, 11 settembre 2019). Un sostegno oggi ancor più necessario di fronte all’empasse che spesso investe le Istituzioni multilaterali e la diplomazia ad esse collegata. Una crisi che la diplomazia pontificia nota e studia, ma che certamente non può condividere, tanto meno aggiungendosi al coro di quanti decretano l’inutilità del foro multilaterale, magari per avanzare la sopravvenienza di interessi particolari. Nelle Organizzazioni intergovernative il percorso verso decisioni che coinvolgono tutti i Paesi è sempre faticoso e spesso comporta di sacrificare l’ego del nazionalismo o l’impellenza dell’interesse particolare. Si rischia, però, di negare l’essenza della diplomazia se non si riconoscono i contesti multilaterali come l’unica possibilità per gli Stati di ritrovarsi simultaneamente per dialogare, elaborare strategie, assumere decisioni e trovare soluzioni a questioni, come la pace, che sono necessariamente comuni. Il pericolo di abbandonare la visione del bene comune per consentire ai Paesi di rifugiarsi nelle chiusure individuali e in localismi più o meno mascherati che colorano ormai lo scenario di un mondo post-globale, è palpabile.  Se rispetto alla globalizzazione l’importante era non essere esclusi, nella realtà post-globale in cui siamo immersi, il primo pensiero è proteggersi, chiudersi rispetto a quanto ci circonda poiché ritenuto fonte di pericolo o di contaminazione per idee, culture, visioni religiose, processi economici. E così l’unità di intenti e il desiderio di cooperare lasciano il posto a posizioni isolate e ad una frammentazione crescente con rischi non facilmente prevedibili proprio sul versante della pace: “Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader” (FRANCESCO, Messaggio sulle armi nucleari, Atomic Bomb Hypocenter Park, Nagasaki, 24 novembre 2019), ha sottolineato Papa Francesco in Giappone, di fronte agli effetti della guerra nucleare.

Si tratta di una strada faticosa e incerta, soprattutto in un frangente nel quale anche la politica internazionale e i suoi protagonisti sembrano rassegnati di fronte all’immagine dei numerosi conflitti in atto, alla circolazione indiscriminata delle armi, al ricorso alla violenza terroristica o ad impossibili condizioni di sopravvivenza di popoli e Paesi. Come ignorare la necessità di coesione, di fraternità e finanche del basilare senso di umanità nelle relazioni tra gli Stati e all’interno degli Stati? Non è raro vedere i diplomatici assistere impotenti a combattimenti, violenze, attentati sperimentando quanto sia difficile fermarli, mentre le vittime aumentano e si moltiplicano le sofferenze di quanti perdono gli affetti o sono costretti a lasciare case, terra, lavoro spesso per iniziare un cammino senza meta.

È di fronte a questi scenari che la diplomazia deve riscoprire il suo ruolo, quale forza che agisce preventivamente rispetto alle minacce alla pace e alla sicurezza, cercando di sostenere ogni sforzo, di cogliere ogni segnale anche minimo in grado di suscitare la cultura dell’incontro e del dialogo, offrendo delle alternative praticabili alle armi, alla violenza, al terrore. Nel concorrere a delineare scenari di pace, alle finalità della diplomazia operativa, il diplomatico pontificio aggiunge la consapevolezza che “la pace non è più di un ‘suono di parole’ se non si fonda sulla verità, se non si costruisce secondo la giustizia, se non è vivificata e completata dalla carità e se non si realizza nella libertà” (FRANCESCO, Messaggio all’Incontro per la Pace, Memoriale della Pace, Hiroshima, 24 novembre 2019). 
È questo il solco in cui si inserisce la Santa Sede quando si rende parte attiva nell’opera di scongiurare i conflitti o nell’accompagnare processi di pace e di ricerca di soluzioni negoziali agli stessi (Cf. FRANCESCO, Discorso al Corpo Diplomatico, 9 gennaio 2017). 

Una diplomazia, dunque, veicolo di dialogo, di cooperazione e di riconciliazione, che poi diventano tutte vie alla pace se sostituiscono le rivendicazioni reciproche, le contrapposizioni fratricide, l’idea di nemico e il rifiuto dell’altro. Soprattutto una diplomazia capace di concorrere a costruire la pace sostituendosi all’uso della forza, e cioè a quella strada considerata più breve, ma certamente non risolutiva: “Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza!” (FRANCESCO, Angelus, 1° settembre 2013).

Ringrazio nuovamente per l’accoglienza e l’attenzione prestatami. Auguro a tutti un sereno Anno Accademico, ricco di risultati e nuovi traguardi.

* Cardinale Segretario di Stato di Sua Santità