di Roberto Cauda *
La doverosa premessa di questa mia riflessione è che al momento non esistono farmaci specificatamente indicati per il trattamento della malattia Covid-19. Preso atto di ciò, non possiamo però negare che vi sono farmaci che nel corso di questi ultimi mesi hanno dimostrato una certa efficacia nel contrastare la pandemia. Per comprendere la tipologia dei farmaci impiegati, bisogna ricordare che la malattia si presenta in due fasi. La prima, è caratterizzata dall’ingresso del virus nell’organismo, dalla sua replicazione e diffusione in vari organi; la seconda, in cui il virus determina un’importante risposta infiammatoria da parte dell’organismo. L’azione diretta del virus, ma soprattutto la reazione infiammatoria associata, determina le forme più gravi di malattia e in particolare la polmonite interstiziale che è causa di grave insufficienza respiratoria.
Oggi, sappiamo bene che l’impiego di farmaci antiinfiammatori e, tra questi, in particolare, gli anticorpi monoclonali contro il recettore di interleuchina 6, possono ridurre le conseguenze della fase infiammatoria della malattia. Sappiamo altresì che l’eparina a basso peso molecolare previene l’embolizzazione dei vasi che rappresenta una delle complicanze di maggior rilievo e gravità di Covid-19. Molto poco invece sappiamo sul valore e sull’efficacia dei farmaci antivirali. Colti di sorpresa da questa malattia, che si è sviluppata in modo così impetuoso dapprima in Cina e successivamente in tutto il mondo, si è cercato di adattare, per il trattamento di Covid-19, farmaci già disponibili per altre patologie.
Mi riferisco in particolare alla clorochina, farmaco antimalarico vecchio di ottant’anni, a lopinavir/ritonavir, inibitore delle proteasi di Hiv, a Remdesivir un nuovo farmaco specificamente utilizzato per il trattamento di Ebola. Tralasciando questi ultimi due, forse il farmaco che è più stato utilizzato, per le sue caratteristiche di maneggevolezza e facilità di reperimento, è stata proprio la clorochina che in Europa è stata per lo più somministrata in forma di idrossiclorochina. A questo proposito mi permetto qui ricordare che nell’ormai lontano 2003, nel corso dell’epidemia Sars, il sottoscritto e i colleghi Andrea Savarino e Antonio Cassone, in uno studio congiunto Università Cattolica del Sacro Cuore e Istituto Superiore di Sanità, avevano ipotizzato un possibile uso di clorochina nella Sars. In particolare questa ricerca, pubblicata su Lancet Infectious Diseases aveva focalizzato due diversi aspetti di Clorochina: quello antivirale aspecifico che, espresso in termini molto semplici, voleva dire che il farmaco rendeva difficile la replicazione del coronavirus Sars all’interno delle cellule e l’aspetto immunomodulatorio, intervenendo sul sistema immunitario dell’ospite.
A distanza di 17 anni da questa pubblicazione, sono stati effettuati, all’inizio dell’epidemia in Cina, studi in vitro che hanno dimostrato che la clorochina bloccava la replicazione di Sars-CoV-2 e successivamente sono stati condotti anche studi clinici pilota che hanno mostrato un certo effetto benefico di questo trattamento nei pazienti Covid-19. A seguito di queste iniziali segnalazioni, in Europa e negli Stati Uniti sono stati condotti una serie di studi clinici con numeri crescenti di soggetti trattati con clorochina. I risultati di questi studi non sono stati univoci, nel senso che alcuni studi hanno indicato l’efficacia del trattamento con clorochina, mentre altri non l’hanno dimostrata.
Va altresì ricordato che, sulla scia di queste iniziali segnalazioni, la clorochina è entrata praticamente in tutte le linee guida per il trattamento di Covid-19 ed è stata utilizzata in maniera estesa nella pratica clinica quotidiana in vari Paesi nel mondo compresa l’Italia. Inoltre, il gruppo francese di Didier Raoult ha evidenziato come l’associazione clorochina più azitromicina poteva migliorare l’evoluzione della malattia e accelerare l’eliminazione del virus nei soggetti colpiti.
Alla fine di maggio, sulla rivista Lancet un gruppo di ricercatori, studiando in maniera retrospettiva circa 96.000 pazienti ricoverati in oltre 600 ospedali di diversi continenti, ha pubblicato un articolo nel quale veniva indicato che la clorochina non solo non aveva alcuna efficacia (da sola o con azitromicina per il trattamento di Covid 19), ma anzi aumentava la mortalità di questi pazienti. Questa ultima informazione è stata una sorpresa, dal momento che la clorochina, nelle sue varie preparazioni farmaceutiche, è stata nel corso di questi ottant’anni impiegata su larga scala, per il trattamento della malaria e più recentemente di malattie reumatiche, senza che emergesse una particolare tossicità a essa legata. Del resto, gli effetti collaterali della clorochina erano e sono ben noti e riguardano: alterazioni elettrocardiografiche, possibile insorgenza di aritmie che si verificano più frequentemente nei soggetti anziani e nei cardiopatici. Per ridurre questi rischi legati all’assunzione di clorochina, è sufficiente l’attento monitoraggio cardiologico di chi assume questo farmaco.
La pubblicazione da parte di Lancet di questa ricerca che derivava da un’analisi di una numerosa casistica proveniente da più continenti ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) a sospendere la sperimentazione di clorochina nello studio da lei sponsorizzato, Solidarity e in Italia e Francia è stato bloccato l’impiego della clorochina nella pratica clinica quotidiana da parte delle autorità competenti. La pubblicazione di questo articolo, oltre che aver ricevuto grande attenzione da parte dei media in varie parti del mondo (si segnala uno degli articoli apparsi su The Guardian, ha suscitato un dibattito all’interno della comunità scientifica che si è concretizzato in una lettera aperta di circa 200 ricercatori che hanno chiesto agli autori dell’articolo delucidazioni avendo individuato 10 criticità con particolare riferimento alla raccolta dati e all’elaborazione statistica degli stessi.
Per rispondere a questi quesiti, gli autori dell’articolo hanno chiesto all’azienda che aveva elaborato le analisi statistiche, di renderle disponibili, affinché un soggetto terzo ne potesse confermare l’attendibilità e la credibilità. Di fronte al diniego (per ragioni di riservatezza) di renderli disponibili da parte di questa, gli autori, alcuni giorni or sono, hanno ritirato il lavoro ritenendo che non potevano più garantire la qualità e l’obiettività dei risultati.
Sulla base di quanto avvenuto, l’Oms ha ritenuto di dover riprendere l’impiego di clorochina nello studio Solidarity ed ora si attendono eventuali prese di posizione da parte di Aifa in Italia e delle competenti autorità in altri paesi europei.
Negli organi di informazione (sia carta stampata che TV e web) c’è chi ha gridato allo scandalo e si è molto stupito di quanto è avvenuto. Alcuni hanno anche adombrato la presenza di manovre politiche dietro questo atteggiamento nei confronti della clorochina. Da ricercatore, con il background scientifico sulla clorochina che ho testé dichiarato, penso che quanto avvenuto rientri nella dialettica della scienza e della ricerca che prevede che ogni lavoro pubblicato possa trovare una conferma o una smentita da parte di altri ricercatori che studiano lo stesso argomento.
Certamente quello che sorprende in questa vicenda è la rapidità con cui si sono dipanati gli eventi: la pubblicazione dell’articolo, la presa di posizione di organismi sovranazionali e nazioni, la critica da parte della comunità scientifica e da ultimo il ritiro del lavoro: tutto questo è avvenuto in un tempo brevissimo, una settimana circa. Certamente l’essere nel pieno della pandemia Covid-19 ha amplificato quello che normalmente sarebbe rimasto nel perimetro della ricerca e nel dibattito tra tecnici. L’intera vicenda, al di là delle responsabilità, indica la necessità di un atteggiamento prudente, da parte di tutti i ricercatori, con verifica dell’attendibilità e fondatezza dei dati, specie se questi hanno un impatto così rilevante in termini di salute pubblica a livello globale.
Personalmente, non credo che quanto avvenuto debba però rappresentare, per l’opinione pubblica, un motivo di preoccupazione tale da tradursi in sfiducia nei confronti della scienza, dal momento che questa vicenda, di cui nessuno silenzia gli aspetti rilevanti in termini di impatto mediatico, ha anche chiaramente indicato come il mondo scientifico abbia ampiamente reagito a quanto pubblicato chiedendo ulteriori spiegazioni in assenza delle quali il lavoro è stato ritirato.
Da ultimo, mi permetto una considerazione finale sulla clorochina. Credo che per rispondere alla legittima domanda che molti si pongono: se cioè la clorochina sia (parzialmente) efficace o del tutto inefficace per il trattamento dei pazienti Covid 19, bisognerà aspettare i risultati degli studi controllati che sono in corso in varie parti del mondo, compreso lo studio dell’Oms, Solidarity. In ogni caso ritengo che l’eventuale effetto benefico della clorochina dipenda largamente dal momento in cui la clorochina viene somministrata assumendo che quanto prima viene somministrata, tanto più efficace potrebbe risultare la sua azione contrastando la fase di replicazione del virus; dal dosaggio che non deve causare tossicità e dalla durata del trattamento.
* docente di Malattie infettive, facoltà di Medicina e chirurgia, Università Cattolica del Sacro Cuore