Religione e violenza. Un binomio che nei recenti mesi è tornato a scuotere le coscienze del mondo occidentale, a terrorizzare una società colpevole, a detta degli estremisti, di una deriva secolarizzante. Un rifiuto totale della società che, come ha argomentato sul Corriere della Sera l’antropologo Olivier Roy, accomuna gli jihadisti di Isis ai terroristi degli anni di piombo in Europa, in particolare alla banda tedesca Baader-Meinhof.
Su questa influenza della dimensione religiosa sui fenomeni di violenza estremista, si concentra il progetto di ricerca “Crisi dell’Eurocentrismo e futuro dell’umanesimo europeo: prospettive storico-culturali, religiose giuridiche ed economico-sociali”, portato avanti dai ricercatori del Dipartimento di Scienze religiose dell’Università Cattolica di Milano. Un’indagine ad ampio raggio, che si propone di trattare l’estremismo non solo dal punto di vista dei protagonisti “attivi” di quegli anni, ma anche analizzando le prospettive di chi la violenza l’ha subita.
In questo quadro si inserisce il secondo seminario del ciclo “Religione e violenza nell’Europa contemporanea”, dedicato ai 55 giorni che hanno cambiato la fisionomia della prima Repubblica italiana. Il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, visti attraverso le lettere scritte dalla “prigione del popolo” di via Montalcini. Si è discusso molto, durante quei giorni, circa la veridicità di quelle parole: sono state avanzate ipotesi di un Moro non in sé, addirittura “stoccolmizzato”.
Un’interpretazione che Gaetano Lettieri, professore di Storia del Cristianesimo all’Università La Sapienza di Roma, definisce nel suo intervento «un tentativo di neutralizzare la portata politica di quei passi, la disattivazione della possibilità di linguaggio». Un Moro doppiamente prigioniero, quindi: gli è stata negata la libertà e sottratta la possibilità di un discorso politico. Ma in una condizione di “re prigioniero”, come lo descrive Lettieri, il Moro delle lettere mantiene una linea interpretativa di evidente coerenza con la sua docenza universitaria. Le considerazioni morali, giuridiche, politiche sono straordinariamente in linea con le sue lezioni di filosofia del diritto all’Università di Bari e quelle di procedura penale alla Sapienza di Roma.
Un Moro che dalla “prigione del popolo” scorge i segni premonitori della deriva democristiana e lo sgretolamento degli equilibri politici e sociali del sistema italiano. Un sistema reso ancor più traballante dalle efferatezze terroristiche e dalle trame eversive, di cui Moro comprende con immediatezza la pericolosità e la portata politica. «Moro comprende le finalità politiche del terrorismo molto prima di quanto non l’abbiano fatto i partiti politici, le istituzioni e l’opinione pubblica» argomenta il professor Giovanni Mario Ceci, docente all’Università della Tuscia. Per questo auspicava una risposta politica, che in quei in quei 55 giorni, tuttavia, mancò.
Di fronte all’impotenza delle istituzioni, Moro cerca la strada della salvezza attraverso la scrittura: si rivolge, tra gli altri, ai compagni di partito, alla moglie, a Paolo VI. Scrive, polemizza, e infine, quando capisce che la sua sorte è segnata, si abbandona all’invettiva, al rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. “Il mio sangue ricadrà su di voi”, scrive, intuendo che le fortune della Dc sarebbero terminate con il mutamento del sistema internazionale.
«Teologia politica, profezia, sacrificio, promessa. Nelle lettere di Moro troviamo questo e altro», commenta il professor Gian Luca Potestà, coordinatore della ricerca e direttore del dipartimento di Scienze religiose. Un testo di straordinaria portata letteraria, scritto da un uomo la cui vita è stata sacrificata in nome del principio, a volte illogico e incomprensibile, della ragion di stato.