Le aziende dovranno assumere più umanisti. Lo dice l’Harvard Business Review. Un recente articolo, firmato da Tom Perrault https://hbr.org/2016/01/digital-companies-need-more-liberal-arts-majors, argomenta come un contesto a più alto contenuto tecnologico, in cui molte operazioni tecniche e anche diverse attività di produzione saranno sostituite dai computer, richiederà sempre più creatività, empatia, ascolto, visione: capacità che si alimentano di cultura umanistica. O, meglio, di digital humanities.
Un discorso valido anche per il nostro Paese? Lo abbiamo chiesto al professor Giuseppe Scaratti (nella foto), psicologo delle organizzazioni e del lavoro e docente alla facoltà di Economia. «Che la competenza tecnologica e digitale abbia assunto già da oggi consistenza e diffusione è fuor di dubbio» afferma. «Il punto è che, quale che sia l’impiego che si svolge, a contatto con una strumentazione specifica o meno, ognuno di noi deve fare i conti con tecnologie con cui è necessario familiarizzare. Tutto ciò vale per qualsiasi tipo di lavoro: dal professore al magazziniere, dall’ingegnere informatico all’operatore di sportello, ognuno deve confrontarsi con protesi tecnologiche che arricchiscono e consentono di agevolare la propria attività».
La Harvard Business Review parla di umanisti digitali. Perché? «È assolutamente necessario il recupero dell’etichetta di “umanista”, ma questa deve essere supportata da una capacità di lettura in profondità e di estensione di sguardo e di orizzonti, potremmo dire una visione in verticale e in orizzontale. Tale combinazione, però, richiede un pensiero critico che non si improvvisa, ma si costruisce. Da questo punto di vista si comprende come sia fondamentale la presenza sia di una componente scientifica, sia di una componente classico-umanistica».
Che valore aggiunto possono avere figure che hanno un background umanistico? «Stiamo parlando di persone che hanno una preparazione non specificamente centrata, ma allo stesso tempo non interamente digiuna del mondo digitale. La possibilità di una formazione a 360°, arricchita dalle scienze umanistiche, mette a disposizione la ricca eredità del nostro patrimonio culturale, che tante significative espressioni trova nel nostro Paese. Mi sembra che oggi assistiamo a un rovesciamento paradossale dell’affermazione della One best way di Henry Ford, il maggiore interprete del taylorismo».
Cioè? «Ford diceva ai suoi operai che non dovevano pensare ma eseguire. Oggi vale il contrario, perché, per distinguerti nel mercato, per eseguire devi pensare. Non si tratta di un richiamo di stampo nostalgico: il riferimento al pensiero è strettamente necessario, perché si parla in termini di attenzione critica e riflessiva a ciò che si fa. Allo stato attuale si richiede una sensibilità e un’attenzione, come sostengono alcune teorie, per poter trovare soluzioni che spesso non sono standardizzate o inserite dentro le procedure prefigurate. Infatti la loro individuazione è determinata dall’inevitabile emersione dell’inatteso, che può essere constatata solo da un tipo di personale che sappia navigare in situazioni di maggiore imprevedibilità».
Tom Perrault, nel suo articolo per Harvard Business Review, elenca una serie di competenze che l’umanista digitale dovrebbe avere: creatività, empatia, ascolto, capacità visionaria. Che ne pensa? «Partendo da una prospettiva psicologia del lavoro e dell’organizzazione, penso che questi aspetti debbano essere inseriti all’interno del rapporto tra soggetto e lavoro negli scenari organizzativi attuali. Riagganciandomi al rovesciamento della One best way, sottolineo l’importanza del pensare, cioè la capacità di aprirsi a nuove ipotesi, da cui poi la creatività, il coraggio nell’investire in ciò che si fa, l’avere una capacità di anticipare delle risposte, anche a prescindere dalle competenze digitali».
Ha in mente qualche figura in particolare? «Penso a quelle personalità competenti che in azienda devono mediare tra le figure professionali, che fanno richiesta di un supporto tecnologico, e il tecnico, che deve provvedere a configurare il tool necessario perché il sistema funzioni, come è il caso ad esempio dell’analista funzionale nelle compagnie di assicurazione. Si tratta di profili richiesti di una capacità di mediazione tra linguaggi, modi d’uso e contesti diversi».
Quali sono le capacità richieste? «Quelle che riguardano la necessità di trasformare la condizione di incertezza e di precarietà in una condizione di aiuto alle persone ad attraversare uno scenario di contraddizioni e complessità, compresa la possibilità della perdita stessa di un impiego. Questo vuol dire che bisogna evitare che termini come “creatività” o “proattività” divengano semplici slogan, che definiscono profili tanto completi da sembrare quasi al di fuori della realtà».
Qual è la qualità più importante? «Oggi si fa molto riferimento alla resilienza, la capacità di sostenere sollecitazioni senza rompersi, di far fronte a dinamiche impreviste, o comunque complicate. Anche in questo caso il concetto si può prestare a una facile manipolazione, che vede il datore di lavoro come legittimato a sfruttare il proprio dipendente allo stesso prezzo e costo».
Altre abilità necessarie? «La capacità di immaginare e vedere anche a fronte di situazioni difficili: consente di guardare dentro le opacità e non è certo ascrivibile alla pura creatività. È inoltre necessario che l’individuo sia in grado di comprendere i diversi linguaggi e di eseguire analisi che servono per avere una maggiore consapevolezza dei numerosi contesti. Ultima, ma non meno importante competenza, è saper agire, anzi assumere e rappresentare ruoli all’interno dell’azienda, prestando attenzione al contesto, cosa che non riguarda la sola dimestichezza con la strumentazione digitale».