L’hate speech è diventato una forma comune della conversazione online. E, insieme alle fake news, alimenta la polarizzazione dei discorsi sociali e politici. È quanto afferma Giovanna Mascheroni, del Centro di ricerca sui media e la comunicazione (OssCom) insieme al direttore OssCom Piermarco Aroldi, in occasione di “Parole O_Stili”, una due giorni di lavoro tra personalità a cui sta a cuore lo stile di stare in rete, che si tiene a Trieste il 17 e il 18 febbraio.
Ma cosa sono hate speech e fake news? «L’hate speech – afferma la professoressa Mascheroni – è definito come un insieme di atti comunicativi e tecniche retoriche dirette a un individuo che viene attaccato o discriminato per la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o a determinate identità collettive (in base a caratteristiche come colore della pelle, gruppo etnico, fede religiosa, identità di genere o orientamento sessuale, disabilità fisica o cognitiva) e diventa bersaglio di insulti, razzismo e discriminazione. Di conseguenza, l’hate speech coinvolge non solo l’individuo-vittima, ma i gruppi o le identità di gruppo a cui l’individuo appartiene.
Come si sviluppa? «L’hate speech viene spesso innescato da “eventi scatenanti” (triggering events) come atti di terrorismo. Fake news sono invece notizie false, o vere e proprie bufale che alimentano la polarizzazione del discorso politico e, di conseguenza, della sfera pubblica. I due fenomeni sono connessi e possono alimentarsi a vicenda: false notizie possono agire come elementi scatenanti dei discorsi d’odio; i discorsi violenti e discriminatori possono produrre il clima d’opinione nel quale determinate fake news possono circolare più facilmente».
Quali sono le dimensioni del fenomeno in Italia? «Se osserviamo i dati italiani delle ricerche EU Kids Online (2010), Net Children Go Mobile (2013) e della ricerca OssCom per TIM (2015), possiamo rilevare una crescita esponenziale nell’esposizione dei giovani all’hate speech (dal 10% di ragazzi che sono venuti a contatto con contenuti razzisti e discriminatori registrato nel 2010 al 34% del 2015), e un incremento altrettanto significativo del cyberbullismo fra 2010 e 2013 (mentre fra 2013 e 2015 resta sostanzialmente stabile). I dati suggeriscono quindi come l’hate speech sia oggi una forma normalizzata della conversazione online».
Quali sono le conseguenze sociali di hate speech e fake news? «Si crea un circolo vizioso che alimenta la costruzione di echo chambers dai confini rigidi, rafforzando stereotipi e false credenze. Le ricadute della polarizzazione sul piano della partecipazione democratica sono serie. Alcuni (pochi) commentatori ancora sostengono la cosiddetta teoria della pentola a pressione, tale per cui hate speech e fake news non sarebbero altro che una valvola di sfogo della violenza necessariamente presente nella società, e servirebbero quindi a prevenire l’attualizzazione della violenza in forme fisiche e più estreme».
E invece? «Per i più la normalizzazione di hate speech e fake news nei social media non rappresenta solo un preoccupante veicolo di radicalizzazione delle opinioni, ma anche una violazione della libertà di informazione e di espressione. La stessa libertà di espressione a cui si appellano i diffusori di hate speech e fake news quando i loro account sui social media vengono bloccati e sospesi, come nel caso di alcuni esponenti dell’Alt Right statunitense i cui account Twitter sono stati bloccati».
Cosa succede in realtà? «I pochi dati disponibili mostrano che le argomentazioni aggressive e discriminatorie hanno l’effetto di zittire i settori della società più vulnerabili, e in particolare le donne, i più giovani, le minoranze etniche, politiche e religiose. Nella ricerca FIRB WebPolEU: Comparing Social Media and Political Participation across EU da me condotta, gli intervistati di 14-25 anni dichiaravano di auto-censurare le proprie opinioni politiche e di astenersi dalla partecipazione a discussioni politiche online per evitare di essere bersaglio di hate speech».
Cosa dobbiamo aspettarci? «Il cortocircuito possibile tra fake news, viralità dei contenuti più facilmente condivisibili, processi di disintermediazione delle fonti informative rende questo tema specifico particolarmente delicato, a fronte del rischio che soluzioni puramente ingegneristiche (basate su algoritmi) o sanzionatorie (basate sulla normativa) finiscano per contraddire alcune delle logiche di base della rete e alcuni dei principi stessi della democrazia come la libertà di espressione».
Come reagire? «Sul piano dell’informazione, è necessario che i media riguadagnino la loro credibilità e autorevolezza e contribuiscano a discriminare verità e menzogna senza alimentare strumentalmente i circoli viziosi prima ricordati. Sul piano educativo, occorre introdurre un vero e proprio cambiamento culturale e un’etica della comunicazione a 360 gradi e ripensare la Media Education oltre la trasmissione di competenze digitali spendibili sul mercato».
Una responsabilità ce l’hanno anche i social network… «Sul fronte delle piattaforme social, è evidente che la lotta a fake news e hate speech non possa essere demandata alla sola iniziativa individuale. Gli algoritmi di identificazione di hate speech e fake news sono inaccurati nonché problematici, perché potenzialmente lesivi della libertà di espressione e di informazione. Lo stesso Facebook ha messo a punto una strategia che si fonda contemporaneamente sulle segnalazioni degli utenti, sul parere di un collegio di esperti che include nomi di punta del settore dell’informazione (ABC news, The Associated Press, Fact Check, ecc.) e un software che dovrebbe misurare la veridicità di un’informazione. In base al principio della safety by design, le industrie del digitale possono facilitare la creazione di ambienti online più aperti e inclusivi, limitando l’effetto “eco” proprio di alcuni algoritmi omofiliaci».