«La principale differenza tra ieri e oggi: noi avevamo un progetto alla base, volevamo capire. Adesso non c'è più una degna formazione culturale, pochissimi sanno cosa vogliono concretamente raccontare. La preparazione è decisiva, perché chi interpreta immagini deve essere sulla stessa onda dell'autore per coglierne il senso. Quindi il fotografo - a maggior ragione - deve averne il più possibile, dato che raccontare le cose non è facile». Così si è espresso il noto fotografo Gianni Berengo Gardin, ospite d’onore all’affollatissimo seminario in aula Bontadini “Fotografia: identità, società e memoria”, promosso dal dipartimento di Psicologia dell’ateneo. Commentando molte delle immagini che gli hanno procurato un grande successo, Berengo Gardin ha raccontato alcuni aspetti della sua lunga e fortunata carriera, spaziando dal contributo in occasione dell'approvazione della Legge Basaglia, al memorabile volume Dentro le case.
«L'opera di documentazione è molto più importante di quella artistica. Da Ugo Mulas ho imparato che una foto bella non comunica niente agli altri - al contrario di quella buona - che veicola il suo messaggio - ha aggiunto il fotografo -. Allora ho cercato di fare foto buone, poi per vivere ne ho fatte anche tante belle. Per esempio nel 1977 insieme ad alcuni colleghi abbiamo cercato e trovato le varie classi sociali all'interno delle loro abitazioni, le abbiamo identificate e, attraverso la fotografia, osservato come si presentavano, si rapportavano con gli oggetti e quali erano i trend del momento». Un altro esempio sono le foto sulle grandi navi a Venezia. Berengo Gardin fa parte del comitato “No grandi navi”, contro l’inquinamento visivo, atmosferico e contro i danni che possono provocare le eliche sul fondo della laguna. Quindi ancora una volta foto che documentano una realtà problematica.
La fotografia è un’arte che può avere diverse applicazioni, quindi non fine a se stessa, ma anche utile a scopi sociali come nel caso della psicologia.
Gli esperti che hanno partecipato al seminario insieme a Berengo Gardin hanno affermato che quando noi pensiamo lo facciamo per immagini. Secondo la tradizione greca, nella fattispecie quella platonica, ci confrontiamo con la mimesis in ogni istante della nostra esistenza. Nel momento in cui scattiamo una foto siamo soli e isolati da tutto ciò che ci circonda e questo rimanda alla sacralità della vita umana. D’altra parte «le origini della psicologia sono coeve a quelle della fotografia - ha dichiarato la docente di Psicologia dell’arte Gabriella Gilli, organizzatrice della giornata -. Le rappresentazioni non sono nient'altro che diari del silenzio, si avvalgono del silenzio, e l'interlocutore deve obbligatoriamente narrare una storia che parta comunque dall'assenza di rumore. Grazie a questo processo diventiamo co-costruttori».
Perciò possiamo affermare che la latenza è il link originario che collega la scienza di Freud e le foto. Il ruolo che assumono queste ultime in risposta a un disagio, sia esso psichico, corporeo o sociale, è fondamentale. L'arte fotografica permette di trasformare la propria immagine, di denunciare le proprie difficoltà e di coinvolgere i fruitori che, riconoscendosi nelle immagini, elaborano i loro stessi contenuti.
Un esempio molto concreto dell’uso della fotografia nelle terapie psicologiche è dato dalle tecniche di fototerapia che usano fotografie scattate dal soggetto, ma anche provenienti dalla sua vita e dalla sua storia familiare. Si impara così a osservare le immagini, a connetterle con pensieri, ricordi ed emozioni e si accede a contenuti della propria esistenza che altrimenti rimarrebbero nascosti o indicibili. Insomma si cresce.
*La foto in alto è tratta da "Mostri a Venezia", courtesy of Fondazione Forma, Milano