Nella società in cui convivono tante visioni del mondo diverse, è possibile immaginare (e soprattutto costruire concretamente) un’idea di bene comune, capace di convincere e su cui convergere, a partire da tradizioni, religioni, convinzioni differenti e, spesso, lontane? Se ne parlerà nel secondo appuntamento dei «Dialoghi di Vita Buona», in programma mercoledì 2 marzo al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano.
A Francesco Botturi, docente di Filosofia morale, prorettore dell’Università Cattolica e membro del Comitato scientifico dei «Dialoghi», che introdurrà il dibattito quella sera, abbiamo chiesto come leggere, sotto questo profilo, la questione del bene comune: «L’idea di bene comune sembra destinata a essere un luogo del peggior esercizio retorico, specie in ambito politico - premette -. Oggi si usano espressioni come “beni comuni” o “bene pubblico”, che ci indirizzano verso la questione di ciò che è in comune: beni che non sono proprietà di qualcuno, ma sono indispensabili ai più - l’aria, l’acqua, le strade -, oppure di un bene che riguarda la vita di tutti garantito dallo Stato. Ma l’idea di bene comune è più basilare, perché riguarda piuttosto l’essere-insieme degli attori sociali: gli amici possono avere cose in comune, ma il loro bene comune è lo stesso loro stare insieme, l’amicizia; nella famiglia il bene della comunanza dei suoi membri tiene-insieme le sue molte e diverse dimensioni e operazioni. Nella società la realtà è ben più complessa, ma proprio per questo, senza una comunanza fondamentale, rischia di divenire un groviglio di procedure per uomini sempre più separati, se non ostili».
Il cardinale Scola dice che nella nostra società occorre una maggiore filìa, una più diffusa amicizia civica. Pensa che sia possibile oggi? «L’idea aristotelica di “amicizia civile” suggerisce appunto un vincolo sociale riconosciuto che non dipende dalla formalità delle leggi e delle procedure, ma le “precede”, sta a loro fondamento morale e culturale. L’amicizia, infatti, porta in sé la dimensione del gratuito, nel senso di ciò che vale per se stesso, non in antitesi all’utile e all’efficiente, ma come loro premessa umanizzante e fondante la stessa politica. Una società si regge nella misura in cui i suoi membri perseguono il bene della loro convivenza come bene primario. Viceversa la società, anche la più tecnicamente perfetta, si disgrega o finisce preda di conflitti, fino alla guerra civile. Fare questo oggetto di una riflessione condivisa è indispensabile, anche se oggi è incerto negli esiti. Tutto dipende dalle risorse delle diverse famiglie culturali che abitano la società plurale, se hanno nel loro patrimonio ragioni di convivenza abbastanza forti da reggere le spinte centrifughe delle differenze».
Un contesto di chiarezza, anche nel rispetto dei simboli, aiuta il dialogo soprattutto tra le religioni? «Posso riprendere qui il tema dei credenti. Chiarezza e rispetto sono certo condizioni importanti; tuttavia, bisogna riconoscere che per loro natura le religioni, se viventi, sono totalizzanti e agenti di separazione. Una religione non nasce per dialogare, ma per ridefinire il senso del mondo e le guerre di o con religioni non sono un fatto sporadico nella storia. Lo Stato laico moderno, idealmente, ha posto il difficile problema della convivenza tra religioni e delle religioni con il non religioso, che la globalizzazione esalta ed esaspera. La questione è radicale: se cioè il bene comune interno a una religione, che la rende coesa e forte, è anche portatore di una dimensione davvero universalista capace di rispettare e accogliere universalmente la libertà (di credenti e non). L’universalismo è tale nella misura in cui è universalismo della libertà e i cristiani sanno oggi, meglio di ieri, che la fede è opera di libertà».