“Avrei voluto diventare Dostoevskij per curvare le parole/per ogni piega, ogni distanza, ogni riflesso che ci scardinava il cuore/avrei voluto insieme a te rubare l’acqua della Luna/ma come Orlando ho perso il senno e ho perso anche la fortuna”. Basterebbe questa strofa della sua Dostoevskij per riassumere i temi fondamentali che Massimo Bubola ha trattato nella lezione che ha tenuto il lunedì 7 dicembre nella sede bresciana dell’Università Cattolica al Corso di teorie e tecniche del giornalismo a stampa del professor Giacomo Scanzi.
Una riflessione che è partita dal concetto fondamentale di parola («il curvare le parole»). Un concetto di difficile definizione, ma così importante in una civiltà come la nostra, che vive la perdita del suo significato. Parola che è alla base del lavoro artigiano di un poeta e di un cantautore, che deve riuscire a trovare il legame tra la sonorità del significante e il suo significato.
Un lavoro d’artista, come da concezione artigiana prerinascimentale, una sorta di commistione tra un De Saussure o un Chomsky, scegliete voi, e un Petrarca o un Baudelaire. Sonorità, rima, metrica sono questi aspetti che legano poesia e canzone, che in fondo «sono la stessa cosa», se pensiamo alle canzoni francesi medievali o ai vari canzonieri della letteratura italiana. Letteratura che il cantautore, nella sua “epica musicale”, ha reso soggetto di molti testi, da Eurialo e Niso a Dino Campana.
Bubola ha fatto anche una piacevole dissertazione sulle giovani letterature (brasiliana, russa e americana), ottimi spunti di riflessione, serviti magari da sprone per i giovani studenti per capire che la cultura, la sete “di virtute e canoscenza” è la base di tutti coloro che vogliono lavorare nel mondo della parola, dal giornalista allo scrittore. Per avere una visione del mondo, per aver qualcosa da dire bisogna conoscere, a maggior ragione oggi.
Il mondo della poesia (e della parola) «va vissuto con un approccio fideistico», «frutto di una necessità insita in ognuno di noi» dato che «tutti hanno bisogno di una poesia o di una canzone». È per soddisfare questa necessità che gli “artigiani della parola” lavorano, con senso di responsabilità e consapevolezza nei confronti dei fruitori dei loro testi. Nella “società della classifica” odierna a contare è il finalismo e non quello che dovrebbe essere: il dono, il dono per gli altri.
Ecco quindi un altro passaggio importante della lezione di Bubola, il «cuore» della canzone Dostoevskij. I sentimenti, le emozioni «che non bisogna per forza urlare, ma basta sussurrare». L’arte è un qualcosa di soggettivo, che vive sui ricordi, sui profumi, sul sentimento e non può essere ridotta a criteri oggettivi come la tonalità o la frequenza. Un concetto che diviene importante nell’oggi, dove l’arte sta diventando sport, dove a contare è la classifica, l’apparire, l’essere famosi.
Forse bisognerebbe tornare all’essenza della nostra vita, a quei primordi in cui la cultura non aveva ancora “corrotto” la natura. O forse come ha detto Bubola «tornare al centro, alla parola». Un percorso tra passato e presente, tra «Dostoevskij, parola e cuore», questo è stato l’incontro con Massimo Bubola. O forse solo un’occasione, un’occasione per crescere e capire.