Una forte motivazione e spirito di iniziativa hanno permesso a Valeria Dirani, diplomata al master in Relazioni di aiuto in contesti di sviluppo e cooperazione nazionale e internazionale (2013/2014) di svolgere il tirocinio in Sudan, proponendo ai responsabili di Emergency e del Salam Centre for Cardiac Surgery, attivato nel 2007 dall’Ong italiana, (Gino Strada e il coordinatore medico dell’ospedale, Gino Portella), un progetto educativo rivolto ai pazienti dell’Ospedale e al campo profughi Mayo, dove ha sede una clinica pediatrica gestita dalla Onlus italiana, nei sobborghi della capitale Khartoum.
Solo dopo un primo periodo di conoscenza e di verifica in loco ha potuto attuare il progetto, innovativo nel suo approccio socio-educativo, per una realtà di carattere medico-sanitario operante in quel difficile contesto. E il titolo della tesi, “Liberi sentieri educativi in Sudan” è indicativo di questo primo tentativo di approccio, che si è svolto in maniera libera senza direttive o strutturazioni.
“Sentiero” che ha rappresentato per Valeria la possibilità di ricercare più obiettivi: «Non solo un percorso di resilienza per le persone ospedalizzate, ma superamento dell'odio etnico che divide i gruppi tribali sudanesi e che, in generale, separa troppo spesso le popolazioni più povere tra loro. L’obiettivo era di attuare quindi un percorso di empatia e relazione con l'altro che risulta fondamentale per una reale crescita della collettività».
La particolarità dell'Ospedale, dove vengono curate e operate le malformazioni cardiache frutto di carenze nutrizionali e sanitarie che colpiscono duramente le popolazioni dei Paesi poveri del mondo, risiede nel fatto che accoglie non solo sudanesi, ma anche pazienti da svariati Paesi africani, dall’Afghanistan, dall’Iraq, e si trova in un territorio, come quello sudanese, attraversata da decennali e violente guerre civili, diviso in una moltitudine di etnie costantemente in lotta tra loro.
«L'obiettivo del percorso era l'autoaffermazione del sé in relazione con l'altro da sé. Tutte le attività proposte si sono mosse in tale direzione; adattare le attività al contesto ha significato utilizzare per lo più la dimensione espressiva pittorica che non prevede l'uso della parola; sono state fatte anche molte attività pratiche e manuali e giochi di gruppo. I risultati sono stati visibili, non solo nelle singole persone, ma soprattutto nello spirito di gruppo che si è andato a creare tra i pazienti e anche tra il personale ospedaliero che con i pazienti aveva a che fare, inclusi e soprattutto gli addetti alle pulizie, quasi tutti sordomuti, che sono stati un valido aiuto nelle attività, sia in termini di traduzione con i pazienti che parlavano i dialetti sudanesi, che di supporto pratico nella costruzione delle attività».
Il linguaggio più usato per comunicare rimaneva quello non verbale. «I pazienti stessi imparavano tra loro una comunicazione più sottile rispetto alla semplice parola, comunicazione che contribuiva a creare tra loro un legame sempre più strettamente empatico».
La trasformazione è stata concreta, confermata dal riscontro degli stessi medici italiani che rilevavano la differenza tra i pazienti dopo l’intervento educativo, ma anche nel reparto in generale. Un risultato di grande valore per Valeria, che si augura possa contribuire a far capire che una realtà di tale importanza dal punto di vista medico-sanitario dovrebbe considerare anche l'aspetto socio-educativo, per realmente ottimizzare i propri obiettivi.
Per operare in realtà così complesse, le competenze necessarie sono personali e tecniche, ma soprattutto trasversali, sottolinea: «Il master ha contribuito ad accrescere alcune mie competenze, che, visto il contesto, bisogna comunque possedere, come un elevato grado di flessibilità, di adattamento, una forte empatia con persone differenti tra loro per lingua, età e cultura; mi ha aiutato ad accrescere la fiducia e la sicurezza personale, oltre a fornirmi conoscenze di attività tecniche e pratiche che hanno incrementato le mie capacità professionali”. Capacità che Valeria vorrebbe destinare ancora ad attività in Africa.
Moltissimi e indimenticabili gli episodi vissuti: le risate “stampate in faccia” a molte donne, fino ad allora attente, come da tradizione, a non far trapelare mai nulla sui loro volti; il gruppo compatto di donne che, sempre più forte e determinato, sfidava quello maschile in giochi di squadra che non avrebbe mai pensato di osare (come il bowling, fatto con una palla di giornale e dei birilli di cartone, o dei giochi a percorsi ad ostacoli: “un po' la loro piccola rivincita personale in una società che le vuole sempre silenziose e sottomesse”); adulti completamente chiusi in se stessi, che hanno in seguito manifestato totale apertura ed interesse verso le attività proposte, cambiando radicalmente l’atteggiamento anche nei confronti degli altri componenti del gruppo.
«Ricordo in particolare bambini di 9 anni, mai andati a scuola, felici di imparare a colorare usando colori diversi; una bambina, segnalata dai medici con ritardo mentale, tratti autistici a primo impatto, si rivelasse poi semplicemente bloccata e spaesata, rivelando una personalità intelligente e vivace appena scoperta».
Una piccola parte della tesi, infine, è dedicata al campo profughi Mayo, baraccopoli formatasi in seguito alle guerre civili e che raccoglie profughi sudanesi e dei Paesi vicini, dove Emergency ha aperto un Centro pediatrico, unica realtà esterna che ha accesso in questo mondo così chiuso e abbandonato a se stesso. Valeria ha trascorso parte del suo tempo nel Centro non potendo però, per mancanza di tempo e a causa di una crisi di colera che ha invaso il campo profughi, svolgervi interventi educativi specifici. «Penso che in una situazione così fragile e precaria un percorso educativo sarebbe ancora più necessario e auspicabile».
Come necessario e auspicabile, sarebbe poter ascoltare sempre più numerose voci di speranza, realizzazione e cambiamento nel continente africano.