di Gian Luca Potestà *
Racconta Marco Polo di una setta di fanatici, educati dal loro capo – il Vecchio della Montagna - a obbedire ciecamente ai suoi ordini e a compiere ogni strage che ritenesse utile alla causa dell’Islam. Gli “assassini”, sostenuti nelle loro azioni suicide dall’ampio uso di “hashish”, erano inviati a colpire nemici e a seminare terrore nelle località più remote.
I nuovi “assassini” sono un’altra cosa: schegge, prima di diventarlo materialmente, di un mondo in cui gli ordini del vecchio sono sostituiti da proclami e istruzioni reperibili nel web, veicoli di un potere distruttivo diffuso da un centro anonimo e sfuggente. Ovunque sia – in un lembo di territorio ancora controllato dall’Isis o in qualche oscura strategia di servizi segreti in conflitto fra loro - esso accorpa in un unico bersaglio obiettivi disparati: le strade e le piazze dell’Occidente europeo, con le sue metropoli opulente e secolarizzate, e i luoghi religiosi dell’Africa e del Medio Oriente: ieri chiese, nel giorno delle Palme (la settimana di Passione!), in altri momenti moschee e sinagoghe.
L’attentato di Alessandria d’Egitto è avvenuto all’entrata della chiesa dove la massima autorità religiosa dei cristiani copti aveva appena terminato di celebrare messa. Ciò indica il livello dello scontro. Obiettivo il patriarca in persona, il loro papa (dal greco pàppas: “papà”), titolo storicamente riferito, prima che ai patriarchi di Roma, a quelli di Alessandria.
La Chiesa copta d’Egitto è radicata entro un territorio in cui i cristiani sono saldamente presenti fin dalle origini. Essa ha rappresentato un tenace nucleo di resistenza prima nei confronti del dominio dell’ortodossia imperiale romano-bizantina e poi dell’Islam. Per i cristiani di Africa settentrionale e Medio Oriente fasi di quiete e di tolleranza si sono spesso alternate a periodi di persecuzione, secondo una dinamica che regolarmente colpisce le minoranze etniche e religiose: quando la tensione cresce, chi ne fa le spese sono innanzi tutto loro, le minoranze abitanti in un territorio dominato da altri popoli e sottoposto ad altri precetti religiosi. Non basta essere sudditi leali, se si pratica la religione del nemico esterno.
Vivere da cristiani in territorio islamico è complicato. Lo è stato, e in parte lo è ancora, per musulmani ed ebrei in Europa, fino a che la si è concepita come “cristianità”: come un territorio, cioè, i cui assetti sociali, politici, morali e religiosi dovevano conformarsi alla normatività cristiana. La Riforma e le sanguinose guerre di religione e rivoluzioni avvenute sul suolo europeo hanno preparato la fine di questa pretesa, superata per i cattolici grazie al Concilio Vaticano II.
Quando e come potrà avvenire qualcosa di analogo per i territori in cui i musulmani sono in prevalenza numerica? Attenuare la potenza del nesso tra religione e territorio è un passaggio indispensabile per alleggerire la componente religiosa della violenza. Esso esige azioni in qualche modo coordinate e prolungate di governi interessati a promuovere la pace, di apparati informativi leali, di leader religiosi capaci di discernimento, di università e sistemi di informazione in cui l’aspirazione alla comprensione delle ragioni dell’altro prevalga sulla polemica e sull’apologetica.
Come già è avvenuto per altri scenari, l’imminente visita in Egitto di papa Francesco si prospetta come coraggiosa testimonianza di prossimità e insieme lungimirante atto politico. Le chiese e i popoli cristiani oppressi e minacciati guardano al papato come a un sostegno prezioso e per certi versi insostituibile. Diversamente da ciò che è avvenuto in passato in situazioni di emergenza per gli armeni o per i greci, non si tratta certo di ventilare alcuna unione a Roma. Oggi i cristiani copti attendono dal papa, dalle altre chiese e istituzioni cristiane segni di attenzione, speranza e prossimità. Inviti alla resistenza e promesse di sostegno e di preghiera.
* docente di Storia del cristianesimo alla facoltà di Lettere e filosofia, direttore del dipartimento di Scienze religiose