Che cos’è un infarto? Spesso lo si descrive attraverso i sintomi, le conseguenze o per i suoi fattori di rischio. Ma la conoscenza dei meccanismi che portano quell’improvviso dolore al torace è ancora oggetto di studio. Sono tante le conoscenze accumulate sull’argomento, ma ancora tanti sono gli aspetti da approfondire, nella speranza di arrivare così a nuove terapie o a nuove strategie di prevenzione. Il professor Filippo Crea, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Pneumologiche dell’Università Cattolica, campus di Roma e dell’UOC di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS (nella foto in alto), e il dottor Rocco Vergallo, contrattista in cardiologia, spiegano sul numero odierno del New England Journal of Medicine il motivo per cui molti pazienti non hanno infarto pur “albergando” nelle coronarie placche aterosclerotiche anche gravi.
L’aterosclerosi non viene da un giorno all’altro. Le placche che impediscono al sangue di scorrere nelle arterie impiegano infatti anni a formarsi. Ma l’infarto avviene in un attimo, spesso senza preavviso. E a fare la differenza tra il prima e il dopo è la formazione improvvisa di un trombo, un grumo di sangue che si forma sulla placca aterosclerotica e finisce col chiudere del tutto l’arteria. Ma questo è solo l’epilogo della storia. Le placche aterosclerotiche non sono un semplice ispessimento della parete interna dei vasi, sono strutture ‘vive’ che attraversano fasi di ‘attivazione’, durante le quali diventano instabili e dunque a rischio di trombosi, e fasi di ‘guarigione’. Negli ultimi trent’anni la ricerca si è focalizzata soprattutto sui meccanismi che rendono instabile la placca, ma questi non hanno consentito di individuare dei biomarcatori in grado di anticipare il ‘big one’, cioè l’infarto o la morte improvvisa. L’attenzione dei ricercatori si è dunque rivolta all’altro lato della medaglia, ovvero ai processi di ‘guarigione’ della placca e la review appena pubblicata sul New England Journal of Medicine dai cardiologi dell’Università Cattolica e del Gemelli fa il punto della situazione sul loro ruolo nella comparsa delle sindromi coronariche acute e sulle possibili ricadute terapeutiche che queste scoperte potrebbero avere.
«Le coronarie, come tutte le arterie – spiega il professor Filippo Crea – sono tubi elastici che portano sangue agli organi. Le placche aterosclerotiche sono una sorta di montagne, che crescono e protrudono all'interno delle arterie. Se queste ‘montagne’ crescono nelle coronarie (i vasi che portano ossigeno e nutrimento al muscolo cardiaco) e superano una certa altezza, limitano l'incremento del flusso di sangue di cui il cuore ha bisogno, quando si fa uno sforzo». Questa è la causa dell’angina da sforzo. Un sintomo fastidioso ma non pericoloso.
Ma cosa succede invece quando si ha un infarto? «Succede che la montagna diventa un vulcano emette cenere e lapilli (coaguli) che ostruiscono la coronaria all'improvviso, in poco tempo. Questo ‘vulcano’ è molto più pericoloso delle montagne perché può causare un infarto o la morte improvvisa», afferma il professor Crea.
Non tutte le placche aterosclerotiche sono destinate però a provocare un infarto, cioè a diventare un ‘vulcano’. Riuscire a comprendere perché alcune sono vocate all’infarto, mentre altre no è un nodo cruciale delle ricerche in corso. «Solo alcune placche diventano vulcani – rassicura il professor Crea –. Il controllo dei fattori di rischio e le terapie che facciamo ai pazienti che hanno le ‘montagne’ nelle coronarie hanno proprio questo scopo: evitare che le montagne diventino vulcani. Purtroppo, nonostante gli straordinari progressi terapeutici fatti nell’arco degli ultimi decenni, l'infarto rimane il killer numero uno sia negli uomini che nelle donne. È necessario dunque fare di più».
Ma più si va avanti con le ricerche, più le cose si complicano. «Abbiamo scoperto che le ‘eruzioni’ delle montagne-placche aterosclerotiche sono molto frequenti, ma fortunatamente molte di esse non danno sintomi perché l’organismo reagisce ‘spegnendo’ il vulcano, cioè facendo guarire la placca e scongiurando così la formazione della trombosi. Alcuni pazienti sono ottimi guaritori di placche, mente altri che non lo sono affatto. Questa scoperta ci pone di fronte ad un nuovo obiettivo terapeutico: trasformare i cattivi guaritori di placca in buoni guaritori. Ma per arrivare ad ottenere questo risultato dobbiamo arrivare a capire meglio i meccanismi molecolari alla base della guarigione di placca. Questo ci consentirà di migliorare la prognosi delle persone con patologia aterosclerotica perché, oltre a ridurre il rischio che si formino i vulcani, saremo in grado di ‘spegnerli’ in maniera efficace, anche nei pazienti ‘cattivi guaritori’, quelli nei quali non riusciremo ad evitare la formazione dei ‘vulcani’».