di Maddalena Colombo *
Il 2015 potrà essere ricordato come annus horribilis per quanto riguarda gli scambi tra le culture e la discussione sui fondamenti del vivere civile in società sempre più complesse e “porose”, aperte alla mescolanza umana.
In primis c’è la consapevolezza della lunga durata dell’emergenza profughi, che sta assumendo i contorni di un diaspora di massa. La questione pone sfide serissime ai nostri sistemi di pensiero, alle regole democratiche della cosiddetta “cittadinanza europea”, alle buro-tecnocrazie che la definiscono e la governano.
Il secondo fattore di pressione riguarda l’escalation del terrorismo e il suo avvicinarsi e penetrare nella quotidianità di un’area sostanzialmente pacifica come l’Europa. Vittime del nuovo regime della paura i cittadini colpiti dagli attentati cominciano a dividere il mondo secondo l’appartenenza religiosa. Si risponde al fanatismo con il classificazionismo, il separatismo, la creazione artificiale di differenze e dunque di nuove disuguaglianze e gerarchie rassicuranti. Così non ci si accorge che questa differenza, in una forma o l’altra, è già dentro il corpo sociale a cui apparteniamo.
Il terzo fattore di rischio è il ciclo negativo delle protezioni sociali, una conseguenza non solo delle congiunture economiche negative, ma anche del fallimento di certe azioni di governo. Crescendo le disuguaglianze, crescono gli egoismi, i “noismi” (Cavalli Sforza, Padoan 2013) e, come si è sempre verificato in ogni congiuntura storica, le resistenze alla solidarietà, alla comunione, al dono.
Tre movimenti (in entrata, in uscita e verso il basso) che non portano beneficio né a chi parla né a chi pratica l’intercultura. Anzi, allontanano sempre di più il miraggio che l’intercultura, se uno non la possiede spontaneamente, se la “possa dare”, quindi sia frutto di un lungo e meditato training a contatto con la pluralità.
Né l’assimilazionismo, né il multiculturalismo hanno portato all’annullamento dei conflitti, pertanto le speranze sono state riposte nella “terza via” dell’interculturalità, ma essa si sta rivelando un via da percorrere in salita, lastricata sia di buone intenzioni sia di difficoltà oggettive, da ultima la paura di procedere senza esiti, di sbagliare la meta, di non incontrarsi mai.
Come superare la paura? Distinguo i due piani, quello del pensiero e quello dell’azione interculturale, non perché debbano competere tra loro ma anzi perché possono e debbono congiungersi e rafforzarsi reciprocamente, evitando di contraddirsi. Pensiero: il salto di qualità nell’espansione della violenza internazionale richiede un passo indietro, almeno in termini ipotetici, rispetto all’impegno dell’andare verso l’altro. Non si tratta di venire meno a un accordo, ma solo di lasciare in sospeso l’idea di un incontro con l’altro su un piano di perfetta parità, o di equidistanza, come spesso si intende la relazione interculturale nella “terra di mezzo”, o sul confine tra il “nostro” territorio e l’ altro”, o nello “spazio condiviso” dei valori e linguaggi comuni (Unesco 1995). Se ci depuriamo dagli effetti paralizzanti della paura, ci disponiamo a ritornare nei territori dove lo straniero non sia ancora definito e stigmatizzato, dove l’etnocentrismo non diventi necessariamente razzismo, dove i confini esistono, e sono mobili, e cambiano spesso.
Azione: questo passo indietro, sul piano cognitivo, non ci esime dal continuare a compiere piccoli gesti di comprensione, connessione, solidarietà nel nostro territorio, di umanizzarlo il più possibile. Connettersi con le grandi ragioni della migrazione e con le molteplici presenze di persone, uomini, giovani, donne, bambini che possono avere bisogno anche del più piccolo aiuto, della più elementare speranza. Anche questo aiuta la messa a tacere delle apprensioni, calma la paura, è un’intercultura benefica, anche se spicciola, ma è certa e possibile. Possiamo fare nostri i richiami di Papa Francesco: occorre una globalizzazione della carità e della cooperazione che umanizzando per quanto possibile la condizione dei migranti, aiuti anche chi vive nel versante “ricco” del pianeta a restare umano, al di là di ogni egoismo, di ogni muro, di ogni cattiva politica. Nutriamo allora la speranza dei piccoli passi e la fratellanza dei vicini di casa”.
* docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi, direttrice del master Competenze interculturali. Formazione per l’integrazione sociale