Sempre più strumentalizzata politicamente per raggiungere obiettivi di natura economica e consensi di carattere politico che nulla hanno anche fare con la dimensione intima del credo, e profondamente combinata con fattori plurimi tra cui quello etnico, eucaristico, familiare, geografico e del potere centrale afferente ai vari Stati del mondo: alla questione religiosa - da sola - è difficilmente imputabile lo status di fattore scatenante del fenomeno migratorio.
Già perché, per determinare route causes e i push factor dei fenomeni migratori, occorre tenere conto della complessità del quadro generale dei contesti locali, delle contingenze legate alla geografia politica e religiosa dei luoghi e non, ultimo, alla condizione economica del singolo e della comunità.
Sono alcuni dei concetti chiave espressi nel webinar Appartenenze religiose e percorsi migratori, secondo appuntamento di un ciclo di quattro incontri che hanno come obiettivo quello di illustrare i molteplici aspetti che compongono la ricerca “Migrazioni e appartenenze religiose”, finanziata e realizzata dall’Università Cattolica.
Certo, la sfera religiosa conta e concorre a determinare il quadro generale, come illustra Paolo Maggiolini, docente ricercatore di storia islamica alla Cattolica, nel suo intervento centrato sull’influenza della religione come root cause delle migrazioni contemporanee: «La religione è un luogo che dialoga con lo spazio pubblico, è relativa alla dimensione personale ed identitaria della persona ma i fatti di cronaca passata e recente ci dimostrano come vi sia sempre maggiore propensione a sfruttare il fattore religioso per motivare questioni politiche».
Da qui la nascita di alcuni tra gli stereotipi più comuni come la visione distorta di religioni diverse dalla nostra come barriera e marker per definire identità politicizzate, ma anche la trasformazione del panorama religioso che vediamo virare a volte in chiave associativa (le radicalizzazioni) e a volte in chiave dissociativa.
Ne è un esempio la situazione in Iraq dove «Lo stato islamico mette in difficoltà le comunità cristiane nella rivendicazione al diritto di proprietà delle terre. Non è propriamente un atto persecutorio, ma rende bene l’idea di come la religione venga piegata per scopi altri, mettendo così le popolazioni nella condizione di doversene andare» fa notare Maggiolini.
Altro esempio, questa volta toccato con mano da Oliviero Forti, responsabile politiche migratorie della Caritas Italiana in collegamento dal Niger dove si trova per un preparare un corridoio umanitario verso l’Italia, è quello del Niger dove «il tema religioso si manifesta anche col suo volto peggiore, quello del terrorismo jihadista che sta fortemente condizionando in negativo lo sviluppo di un intero Paese. Questo, sommato alla povertà diffusa e a calamità ambientali quali le frequenti inondazioni portano il popolo a vedere l'emigrazione come unico sbocco possibile per cercare un futuro migliore».
Del resto la differenza tra l’Italia e l’Europa rispetto agli stati esteri sta nel fatto che la libertà di religione è prevista dal nostro ordinamento, in particolare l’art. 19 della nostra Costituzione sancisce di poter esercitare la propria religione collettivamente o individualmente, di poterla cambiare così come di non essere credenti, oltre che di farne uso propagandistico purché le azioni non costituiscano un attentato al buon costume. Tutto ciò mentre «in molti nazioni estere, nella migliore delle ipotesi è ammessa la sola libertà di culto all’interno di luoghi deputati» ha ricordato Paolo Bonetti, professore di diritto costituzionale, diritto pubblico e degli stranieri, che nella ricerca “Migrants and Religion: Paths, Issues, and Lenses” ha affrontato il tema da un punto di vista giuridico e procedurale.
«Il diritto di asilo è garantito dall’articolo 10, in sede di esamina della domande ai richiedenti non vengono chieste prove poiché sarebbe difficile produrle, si presuppone la buona fede delle persone. Questo avviene in modo assai frequente, ad esempio, nei casi di conversione: proviamo a pensarci, come si attesta una conversione? Per questo esistono sentenze dell’Unione Europa dove si sancisce che non occorre la prova provata, essendo la conversione un processo interiore molto lungo e personale» ha fatto notare Bonetti, aggiungendo in conclusione come «anche il matrimonio di stranieri e asilanti diventano un problema, se in uno Stato sono vietate le unioni tra persone con confessioni diverse».
A ciò si aggiunga come spesso gli atti persecutori avvengano in famiglia - pensiamo ad esempio alla persecuzioni causate dall’orientamento sessuale nei confronti degli omosessuali o di donne tacciate di stregoneria per la loro condotta - per comprendere la natura vasta ed eterogenea della casistica esaminata.
Proprio per le succitate motivazioni «è fondamentale ragionare sui vissuti, anche mediante lo strumento dell’intervista, per tenere bene a mente la complessità della geografia religiosa ed arrivare comprendere, ad esempio, come un musulmano possa aver bisogno di protezione anche da un Paese musulmano» ha evidenziato Laura Zanfrini, coordinatrice dello studio e docente di sociologia delle migrazioni.
Tra i casi portati a titolo d’esempio: «Un nostro intervistato di nazionalità cinese ha dichiarato di essere stato aspramente vessato a scuola poiché cristiano credente e praticante; in Iran non sono rari i casi in cui la religione è usata come strategia di chiusura sociale per impedire alle persone l’accesso a scuole prestigiose e posizioni sociali vantaggiose; in Tibet i cinesi proibiscono lo studio della cultura tibetana» ha riportato Zanfrini.
Nel merito delle attività svolte dalle organizzazioni d’ispirazione religiosa nel sistema d’accoglienza si è soffermata Lucia Boccacin, ordinario di sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la sede di Milano della Cattolica, che ha esordito palesando «le molte difficoltà sperimentate nel processo di raccolta e registrazione di informazioni in merito, derivate da ambo le fonti: i migranti messi in difficoltà dalla poca padronanza linguistica unitamente al timore di ripercussioni; le organizzazioni deputate all’accoglienza non sempre in grado di dar voce al proprio lavoro».
Se il modus operandi unanime e consolidato è quello di erogare aiuto ed assistenza a chiunque in modo indiscriminato, il paradosso risiede nel fatto che così facendo viene limitata la possibilità di andare alla radice delle motivazioni che hanno spinto il migrante a migrare. «Per questo è valsa la pena effettuare una verifica empirica, chiedendo alle organizzazioni operanti 1) se esista un nesso tra la decisione a migrare e un’eventuale condizione di persecuzione religiosa nel Paese d’origine; 2) quale visibilità ha la dimensione religiosa nelle pratiche offerte dalle organizzazioni solidaristiche di ispirazione religiosa; 3) quale spazio pubblico esiste per l’esperienza religiosa personale e associativa nella società contemporanea».
Le rispose emerse dall’indagine - ha quindi, infine, illustrato Boccacin in quella che parsa una chiusura ciclica - sono che «la migrazione è un fenomeno composito e impossibile da ricondurre ad un movente isolato; che senza una relazione stabile e/o fiduciaria col soccoritore è molto probabile che la motivazione religiosa rimanga celata; che servizi, interventi e prestazioni educative creano una dimensione da cui la religione non è espunta, al contrario: gettano le basi per la creazione di uno spazio pubblico per essa».