Riuscire a far comunicare e dunque a integrare al meglio le varie realtà che lavorano all’interno del carcere. Potrebbe essere questa la chiave per risolvere gran parte dei problemi che affliggono la casa circondariale bresciana di Canton Mombello. Il laboratorio di Psicologia dell’Università Cattolica di Brescia si è messo in gioco e, attraverso il progetto “B.E.A.- Benessere e ascolto organizzativo nel sistema penitenziario della Lombardia” ha attivato una serie di incontri di aggiornamento e formazione rivolti a coloro che lavorano all’interno della struttura. Il primo modulo, curato da Caterina Gozzoli ha coinvolto l’area “civile” del personale (ispettori, amministrativi, educatori) mentre il secondo, tenuto da Giancarlo Tamanza ha riguardato gli agenti di polizia penitenziaria. Entrambi i percorsi si sono svolti nell’arco di quattro incontri, svoltisi tra il 7 febbraio e l’11 marzo.
«E’ stata un’esperienza che ci ha permesso di entrare in contatto con una realtà importante del nostro territorio – spiega Caterina Gozzoli – che si è mostrata assolutamente disponibile, in tutte le sue componenti, all'iniziativa. Durante la fase di preparazione del progetto, prima dei corsi, ci è stata infatti concessa la possibilità di visitare il carcere e di capire come si svolge la giornata tipo di dipendenti, agenti di polizia penitenziaria e detenuti. Un aspetto, questo, fondamentale per poter lavorare al meglio».
Un carcere, quello di Canton Mombello, dove il problema del sovraffollamento è presente in tutta la sua drammaticità. E non è l’unico elemento critico: «Essendo un carcere che ospita molti detenuti per reati “minori” - prosegue la Gozzoli - molte persone entrano ed escono o vengono di frequente trasferite da un settore all’altro del carcere. Senza contare che buona parte dei carcerati sono stranieri e tossicodipendenti con tutte le difficoltà che questo comporta in termini di interventi di recupero. Paradossalmente infatti il non avere a che fare con ergastolani rende più difficile qualsiasi progetto. Non è facile lavorare con qualcuno che un mese c’è e quello dopo non c’è più…»
Motivare e responsabilizzare. La prima parte del percorso, rivolta a ispettori, amministrativi ed educatori, si è subito indirizzata in questa direzione, in particolare nei confronti degli ispettori che, secondo la docente della Cattolica, curatrice del modulo, hanno subito evidenziato un deficit motivazionale: «Vogliono essere valorizzati e alla luce di questa esigenza abbiamo lavorato perché possano essere in grado di prendersi le responsabilità che competono loro e l’autonomia decisionale che il ruolo che ricoprono richiede».
La seconda parte del progetto ha invece coinvolto gli agenti di polizia penitenziaria. Qui il principale problema da affrontare è stato quello del cosiddetto burn out, un particolare tipo di stress che colpisce le persone che esercitano professioni d'aiuto qualora queste non rispondano in maniera adeguata ai carichi eccessivi di stress che il loro lavoro li porta ad assumere. Al sovraffollamento del carcere non corrisponde infatti un incremento degli agenti che spesso si trovano a lavorare in condizioni di assoluta difficoltà. Un altro problema è quello della scarsa comunicazione con educatori e dirigenti del carcere. “Conosciamo i detenuti, viviamo con loro per gran parte della giornata, abbiamo informazioni preziosissime su di loro ma nessuno ci chiede niente” questo il grido d’allarme degli agenti che gli operatori della Cattolica hanno raccolto e che, questo è l’obiettivo, dovrebbe portare a una maggiore comunicazione fra le due parti.
«Pur essendo molto importanti, iniziative di questo genere – spiega la Gozzoli – possono migliorare la condizione carceraria fino a un certo punto. L’approccio culturale e legislativo resta fondamentale. Per fare un esempio, in Italia, siamo molto indietro dal punto di vista delle cosiddette misure alternative. Il concetto è semplice: i detenuti, per seguire un processo di riabilitazione (ma anche solo per ridurre l'aggressività) devono poter fare qualcosa, che sia questo un lavoro, da fare dentro o fuori il carcere, o un qualche progetto culturale».
Il lavoro della Cattolica in ogni caso non resterà isolato. Il prossimo obiettivo, sempre all’interno del progetto B.E.A., prevede infatti il coinvolgimento anche dell’altro carcere bresciano, il Verziano, attivando magari, fermo restando le diversità che caratterizzano le due case circondariali, un percorso formativo comune di aggiornamento e formazione.