«Il carcere, questo carcere, dovrebbe essere abolito». Non ha dubbi Gherardo Colombo, ex magistrato con alle spalle inchieste come la Loggia P2, il delitto Ambrosoli, Mani pulite, i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Laureato dell’ateneo di largo Gemelli e attualmente presidente dell’editrice Garzanti Libri, l’ex Pm di Mani pulite ha incontrato gli studenti della sede di Piacenza per parlare di "perdono responsabile”. «Premesso che chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, non in mezzo alla società civile - ha affermato - è comunque interesse della cittadinanza che le persone che abbiano commesso un reato vengano recuperate piuttosto che escluse. Ma questo, oggi, non succede».
Per rispondere a questa esigenza, nel suo ultimo libro “Farla franca” (Longanesi, 2012) indaga le basi di un nuovo concetto e di nuove pratiche di giustizia che lentamente emergono negli ordinamenti internazionali e nel nostro. Pratiche che non riguardano solamente i tribunali e le carceri, ma incoraggiano un sostanziale rinnovamento nel tessuto profondo della nostra società: riguardano l’essenza stessa della convivenza civile. «Si può educare al bene attraverso il male? Quali sono le alternative alla punizione e alle pene tradizionali?»: queste le domande di fondo che hanno guidato Colombo nel confronto con i professori della facoltà di Giurisprudenza Francesco Centonze, Vincenzo Cariello, Antonio Chizzoniti, Luciano Eusebi, Alessandro Mangia, Claudia Mazzucato e la giornalista Carla Chiappini. Al centro del dibattito il sistema carcerario italiano e delle sue criticità. In sala, una folta schiera di studenti e il direttore del carcere di Piacenza Caterina Zurlo.
«È un metodo sbagliato cercare di educare una persona facendole del male - ha esordito Coombo -. Il nostro sistema detentivo non permette di recuperare nella società chi ha commesso dei crimini, ma fa maturare, con le privazioni che infligge, sentimenti di aggressività verso gli altri esseri umani, che portano il 68% dei carcerati a ricommettere un reato una volta ottenuta la libertà: questo va anche a discapito dei cittadini che non si sentono sicuri una volta che questa gente esce di prigione».
L'indagine del suo libro spiega infatti che esistono diversi metodi per recuperare i criminali: del resto la nostra costituzione parla di una pena che deve tendere alla rieducazione del condannato, a cui deve essere inflitto un trattamento che non ne leda la dignità. «La Costituzione ci parla di un modello educativo diverso da quello che usa grandemente la punizione come strumento di correzione, quello dell’educazione all’obbedienza. La Carta invece richiede un’educazione alla responsabilità. È un approccio molto più complesso, che prevede che tutti i cittadini si sentano responsabilizzati a esercitare il potere della sovranità a cui sono chiamati: questo costa fatica, impegno e mette in crisi i punti di riferimento consolidati a cui l’educazione all’obbedienza ci ha abituati».
Se il male non serve per correggere il male, e se tutte le persone hanno uguale dignità in quanto esseri umani, a prescindere dagli atti che commettono, allora occorre trovare una soluzione alternativa per combattere il male, occorre combattere il male con il bene, garantendo la sicurezza dei cittadina senza ledere la dignità del reo. «Una soluzione possibile – ha concluso l’ex Pm - è la pena riparativa, che mette a confronto la vittima con il condannato, nella ricerca di possibili soluzioni agli effetti dell’illecito e nell’impegno concreto per la riparazione delle sue conseguenze. In tal modo la vittima si vede riconosciuta e riesce ad avere un risarcimento morale, mentre il reo prende atto delle sue responsabilità e pone in essere le azioni necessarie a ricomporre il confitto e a rafforzare il senso di sicurezza collettivo. Purtroppo l'Italia ha ancora molto lavoro da fare in questo campo, ma sono fiducioso che con il tempo si potrà applicare».