Italiani sempre più grassi, grandi e piccoli – Nella maggior parte delle regioni, rispetto al precedente Rapporto Osservasalute, si riscontra l’aumento delle persone in soprappeso (il 35,6% delle persone, cioè oltre un italiano su tre, dai 18 anni in su nel 2007). Le regioni del Sud presentano la prevalenza più alta di persone in soprappeso (Campania 41,3%, Sicilia 41,1%) e obese (Molise 13,2%, Basilicata 12,6%). La quota di popolazione in condizione di eccesso ponderale (obesa o in sovrappeso) aumenta al crescere dell’età: dal 16,5% tra i 18 e i 24 anni al 60% ed oltre tra i 55 e i 74 anni, per diminuire nelle età più anziane con il 55,8% tra le persone di 75 anni ed oltre. La condizione di sovrappeso o obesità risulta più diffusa tra gli uomini, rispettivamente il 44,3% e il 10,6% rispetto al 27,6% e al 9,2% delle donne.
Per quanto riguarda i bambini, la quota complessiva di quelli grassi è del 36%. Tra gli otto e i nove anni sovrappeso e obesità riguardano rispettivamente 23,1% e 11,5% dei bambini, con ampia variabilità regionale: dal 17,5% di bimbi in sovrappeso in Valle d’Aosta al 27,8% in Campania; dal 4,5% di piccoli obesi in Friuli Venezia Giulia al 21,0% in Campania.
Un po’ più di sport, ma non è ancora abbastanza - Rispetto al Rapporto Osservasalute 2008 si registra un leggero incremento della quota di persone che svolgono solo qualche attività fisica e una conseguente riduzione nella quota di sedentari. Nel 2007, poco più di un italiano su cinque (il 20,6% della popolazione italiana di 3 anni ed oltre), ha dichiarato di praticare in modo continuativo uno o più sport nel tempo libero e il 9,6% in modo saltuario. Nel complesso, quindi, l’attività sportiva ha coinvolto il 30,2% della popolazione. Le quote più alte di “sportivi continuativi” si riscontrano nella classe d’età tra i 6 e i 17 anni ed in particolare tra gli 11 ed i 14 anni (56,3%); fare sport saltuariamente è, invece, maggiormente diffuso tra i giovani adulti (18-34 anni). Al Sud meno sport e più sedentarietà che a Nord: a svolgere attività fisica in maniera continuativa sono nettamente meno i meridionali (Sicilia 14,1%, Campania 14,2%, Calabria 14,3%) rispetto alle persone residenti al Nord (Trentino-Alto Adige 30,7%, Veneto 26,4%, Lombardia 25,1%).
La sedentarietà aumenta man mano che si scende da Nord verso Sud, in particolare in Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia; in tutte queste Regioni più della metà delle persone dichiarano di non praticare nessuno sport. All’aumentare dell’età diminuisce la quota di persone che praticano sport, sia in modo continuativo che saltuario. Tra i 35-44 anni fa sport in modo continuo il 18,5% della popolazione, tra 45-54 anni il 15,6%, tra 55-59 anni il 12,8%, tra 60-64 anni il 10,7%, tra 65-74 anni il 7,5%, infine tra gli over-75 solo il 2,4%. La quota maggiore di sedentari si riscontra quindi fra le persone molto anziane, oltre il 70% delle persone con più di 75 anni dichiara di non fare nessuno sport.
Dimenticata la dieta mediterranea – Gli italiani continuano a consumare poca frutta e verdura, solo il 5,6% (poco più di cinque persone su 100) mangia le cinque porzioni raccomandate al dì. Rimane forte la passione per i cereali: ben l’85,5% degli italiani, infatti, mangiano pasta, pane e riso almeno una volta al dì. Resta alto il consumo di carni, il 79,3% degli italiani consuma quelle bianche almeno qualche volta a settimana, il 71,8% la carne bovina. Si osserva una tendenza alla diminuzione dei consumi di alimenti proteici e di cereali e patate. Aumentano anche i golosi, coloro cioè che consumano dolci, ed è fortemente crescente il consumo di snack salati. Si osserva la diminuzione dei consumi di bevande gassate, la diffusione del consumo moderato di aperitivi analcolici.
Per le bevande alcoliche si registra un andamento decrescente dei consumi di birra, vino, amari e superalcolici, ma si consolida la tendenza, già osservata nel precedente Rapporto Osservasalute, al consumo di aperitivi alcolici. I consumi di alcol sono la nota dolente degli italiani: il numero di consumatori a rischio rappresenta il 16,8% della popolazione di età >11 anni, (26,4% uomini, 7,8% donne). Il numero di consumatori è rimasto pressoché stabile tra 2006 e 2007 e pari al 68,2% della popolazione italiana, mentre è diminuito di poco quello dei non consumatori (29,6% nel 2006 vs 29,1% nel 2007).
Meno fumo, ma attenzione a giovani e donne - Nella vita degli italiani sembra esserci un po’ meno fumo, vizio che rappresenta la prima causa di morte evitabile. Confrontando il nuovo Rapporto con quello del 2008 si vede infatti che i fumatori tendono a diminuire: rispetto al dato del 2006 (Rapporto Osservasalute 2008), si evidenzia una diminuzione dei fumatori nelle maggior parte delle regioni (soprattutto nel Lazio che passa dal 25,7% al 24,4% e in Sicilia che passa dal 25,5% al 22,5%). Fanno eccezione alcune regioni del Nord-Ovest, dove le percentuali dei fumatori sono aumentate, in particolare in Liguria (dal 19,5% al 23,2%). Non emergono, comunque, grandi differenze territoriali nell’abitudine al fumo per i dati relativi al 2007, si riscontra solo un dato di prevalenza maggiore nel Centro (23,5%). La prevalenza di persone che hanno smesso di fumare dal 2001 (20,2%) al 2007 (22,5%) è in lenta ma costante crescita, con una distribuzione degli ex-fumatori prevalentemente nelle regioni del Centro-Nord (Valle d'Aosta 26,2% ed Emilia Romagna 25,9%) rispetto al Meridione (Molise 17,7% e Calabria 17,4%).
Sos cuore, soprattutto al sud - In Italia, attualmente, le cause di morte più frequenti sono quelle connesse alle malattie del sistema circolatorio, il 42% di tutti i decessi registrati annualmente. In particolare, le malattie cardiovascolari (malattie ischemiche del cuore e malattie cerebrovascolari) costituiscono circa il 25% della mortalità generale. Tra le malattie del sistema circolatorio particolare rilievo merita la cardiopatia ischemica e le patologie a essa correlate, che rappresentano la causa di morte principale nel 32% dei decessi. In questa graduatoria seguono gli eventi cerebrovascolari con il 28% dei decessi. Si stima che in Italia, annualmente, sono oltre 300.000 gli anni potenziali di vita perduta (PYLL - Potential Years of Life Lost) dai deceduti di età non superiore a 65 anni per patologie cardiovascolari. Coloro, poi, che sopravvivono a una forma acuta di cardiovasculopatia divengono malati cronici, con qualità della vita decisamente ridotta e con alto consumo di risorse assistenziali, nonché farmaceutiche, a carico del servizio sanitario e della previdenza sociale.
Dalle fonti dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (INPS) emerge che la spesa assistenziale per le pensioni di invalidità è da attribuire per il 31,2% alle patologie cardiovascolari croniche. Per le malattie coronariche i tassi di ospedalizzazione negli uomini sono più del doppio di quelli delle donne: per esempio per l’infarto acuto nel 2006, 395,9 ospedalizzazioni per 100.000 uomini contro 156,7 ospedalizzazioni per 100.000 donne. Nell’ultimo anno riportato (2006) i tassi più elevati di ospedalizzazione per malattie ischemiche del cuore si registrano in Campania sia per gli uomini che per le donne (1.493,5 per 100.000 e 560,7 per 100.000 rispettivamente), cui seguono Sicilia (1353,1 per 100.000 e 506,9 per 100.000 rispettivamente), Calabria (1290 per 100.000 e 492,9 per 100.000 rispettivamente) e, più in generale, le regioni del Sud, con tassi di ospedalizzazione particolarmente elevati. Tra il 2004 e il 2006, in tutte le regioni e in entrambi i sessi, si evidenzia un trend decrescente delle malattie ischemiche del cuore nel loro complesso, mentre per l’infarto acuto del miocardio un trend decrescente, anche se non particolarmente ripido, si riscontra solo in alcune regioni del Nord. Nelle regioni meridionali, invece, i tassi di ospedalizzazione specifici per l’infarto acuto del miocardio registrano, purtroppo, un incremento consistente. Anche la mortalità per malattie ischemiche del cuore continua a colpire quasi il doppio degli uomini rispetto alle donne; in particolare, nel 2003, si sono registrati 18,46 decessi (per 10.000 uomini) contro 10,58 decessi (per 10.000 donne).
Tumori: al sud come al nord, ma si guarisce di più - Come già evidenziato nei precedenti Rapporti il rischio oncologico complessivo del Sud, storicamente più basso, si sta avvicinando a quello del Nord: per gli uomini si nota, nell’ultimo decennio, una riduzione di incidenza nel Nord e nel Centro (la diminuzione maggiore si riscontra in Veneto e Friuli Venezia Giulia), contrastato da un aumento in alcune regioni del Sud (principalmente Basilicata e Campania). I tassi di incidenza nelle donne, invece, sono stimati in aumento in tutte le regioni, con una crescita più accentuata in alcune regioni del Sud (Basilicata, Campania e Sardegna). I dati di mortalità per tutti i tumori sono in costante riduzione negli ultimi anni sia per gli uomini che per le donne nelle regioni del Nord e del Centro, mentre sono solo in lieve calo nel Sud. Questo riflette sia gli andamenti dell’incidenza, che gli avanzamenti diagnostici e terapeutici raggiunti. Ciò comporta però che il numero di casi prevalenti (numero di persone che hanno un tumore in un dato momento) per tumore sia in crescita. I casi prevalenti sono quasi quadruplicati passando da circa 524 mila (persone con un tumore) nel 1979 a circa 1,8 milioni nel 2009: un grande numero di pazienti che contribuisce all’aumento della domanda sanitaria e per i quali sono necessari specifici programmi di assistenza. Si stima che l’incremento di prevalenza nel decennio dal 1995 al 2005 sia dovuto per il 27% all’invecchiamento della popolazione, per il 43% alle dinamiche dell’incidenza e per il 30% all’incremento della sopravvivenza.
Molti italiani col male di vivere - Non sarà certo solo a causa dell’aumento dell’incidenza dei casi di depressione, ma in Italia si registra un trend nazionale in forte aumento del consumo di farmaci antidepressivi, che è salito del 310% (cioè più che triplicato) dal 2000 al 2008. Quello che descrive il consumo di farmaci antidepressivi in Italia è forse l’unico indicatore valutato nel Rapporto che vede negli ultimi anni un costante incremento simile in tutte le Regioni, ha sottolineato la professoressa Roberta Siliquini, docente di Igiene all’Università di Torino. «Tale crescita esponenziale è attribuibile a diversi fattori: da un lato un aumentato disagio sociale, che rimane tuttavia ancora difficilmente quantificabile, dall’altro alcuni oggettivi elementi di cambiamento. Infatti, negli ultimi anni è proseguita l’opera di riduzione della stigmatizzazione delle problematiche depressive, con un conseguente maggior accesso alle possibili terapie. L’attenzione del Medico di Medicina Generale nei confronti della patologia è progressivamente aumentata, con un probabile miglioramento dell’accuratezza diagnostica e l’incremento di un invio giustificato al medico specialista. La classe farmacologica si è inoltre arricchita di nuovi principi attivi anche utilizzati (per i minori effetti collaterali) per il controllo di disturbi della sfera psichiatrica non strettamente depressivi (es. disturbi d’ansia). L’utilizzo sempre più frequente di questi farmaci nella terapia di supporto di soggetti affetti da gravi patologie degenerative (in particolare di pazienti oncologici) è un ulteriore elemento che contribuisce al trend in ascesa”.
Italiani costretti a fare economia sulla propria salute, lo dice il loro sorriso - Il ricorso alle cure odontoiatriche è un importante indicatore delle disuguaglianze nell’accesso ai servizi sanitari, infatti varia significativamente per età e status socio-economico, soprattutto perché in Italia il ricorso a queste cure è quasi sempre a carico delle famiglie (l’86% di coloro che ha fatto ricorso a un dentista o a un ortodontista lo ha fatto sostenendo interamente il costo delle prestazioni). Non a caso non è affatto alta in Italia la quota di popolazione con età superiore ai 3 anni che, nei dodici mesi precedenti l’indagine, ha fatto ricorso a un odontoiatra: complessivamente presso qualsiasi tipo di struttura, sia del SSN che privata o accreditata, è pari al 39,7%. Tale quota varia rispetto ad alcune caratteristiche socio-demografiche della popolazione e alla Regione di residenza. Soprattutto tra gli anziani e le persone con basso titolo di studio si osservano le percentuali più basse di ricorso alle visite o alle cure odontoiatriche, rispettivamente 26,6% e 26,4%. Esiste un forte svantaggio per la popolazione residente nelle regioni del Mezzogiorno dove la quota di quanti ricorrono al dentista è inferiore al valore medio nazionale. In particolare è in Campania (26%) che si osserva la situazione peggiore. Si evidenziano invece quote nettamente più elevate di ricorso al dentista nelle regioni settentrionali, soprattutto del Nord-Est e in particolare nella PA di Bolzano (54,4%).
Lo svantaggio del Mezzogiorno si evidenzia, soprattutto tra gli anziani, anche considerando il numero complessivo di denti mancanti che non vengono sostituiti. Infatti circa il 20% degli ultrasettantacinquenni residenti nel Mezzogiorno (contro il 7,1% del Nord e l’8,4% del Centro) ha meno di 21 denti, soglia che è definita adeguata per una dentizione funzionale nel Community Action Program on Health Monitorino della Commissione Europea. Le differenze territoriali sono rilevanti anche per le persone anziane tra i 65 e i 74 anni, tra le quali nel Sud e nelle Isole si osserva una quota di oltre il doppio di persone con meno di 21 denti rispetto al Nord (9,5% contro 4,2%).