Sono trascorsi 37 anni dalla strage di Piazza della Loggia, ma anche chi quella mattina del 28 maggio 1974 non era ancora nato, ha diritto e dovere di conoscere, perché senza la memoria c’è il rischio di vanificare il dolore delle vittime e di rimuovere i rischi che corre la democrazia. Con queste premesse si è aperto giovedì 14 aprile nell’aula magna della sede di via Trieste a Brescia, il secondo e conclusivo incontro del ciclo “Legalità alla prova – Giustizia e riconciliazione. Tra esperienze personali e percorsi educativi” organizzato dal Centro studi per l’Educazione alla legalità, diretto dal professor Luciano Caimi, in collaborazione con la Fondazione della Comunità Bresciana ONLUS e della Rete educativa alla cittadinanza e legalità delle scuole della provincia di Brescia.
«Quando la giustizia viene infranta – afferma il professor Caimi – si producono ferite profonde nelle persone, e i cammini per guarire e ricucire le lesioni si rivelano molto faticosi e dolorosi, perché la riconciliazione costa». La strage di Piazza Loggia si inserisce in un periodo di violenza neofascista che aveva già dato segni preoccupanti attraverso alcuni attentati falliti. Ma fu anche molto diversa dalle stragi di quegli anni, perché non è stato un atto puramente terroristico o con celati obiettivi economici, ma, come l’ha definita il giudice Gianpaolo Zorzi, fu la strage a più alto tasso di politicità.
«Un chiaro attacco alle istituzioni democratiche – spiega Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari caduti strage Piazza Loggia – in cui chi ha voluto produrre la violenza, era alla ricerca di una reazione altrettanto violenta, ma la grande partecipazione popolare è riuscita a bloccare questo intento. L’unica cosa che non venne sconfitta fu il nucleo più interno dello Stato, che anziché lavorare in funzione delle istituzioni democratiche, vi ha remato contro ed è all’origine dell’impunità della strage». I familiari delle vittime temono che la mancanza di giustizia porti a dimenticare che questo fatto è realmente accaduto; per questo l’incontro con la cittadinanza e gli studenti ha voluto focalizzarsi sui ricordi personali dei protagonisti, ma anche sulla memoria, come sentimento civile condiviso e valore che deve essere trasmesso alle nuove generazioni che non hanno ricordi propri dell’accaduto.
Oggi il problema non è come comunicare, ma che cosa comunicare; bisogna fare delle scelte e selezionare cosa tenere e cosa invece gettare e dimenticare, ma in questo caso non si possono avere dubbi e la popolazione ha il compito e il dovere di tenere la memoria di ciò che è successo. «Quelli della mia generazione – afferma Tonino Zana, moderatore della tavola rotonda – anche a distanza di anni ricordano perfettamente dov’erano e cosa stavano facendo quel giorno. Viviamo la condizione di appartenere ed essere pienamente protagonisti, ancora oggi, di quei minuti».
Presente al tavolo dei relatori, Beatrice Bazoli, che nel 1974 aveva 9 anni e nella strage ha perso la madre Giulietta; con grande commozione ha raccontato ai presenti i suoi ricordi di bambina. «Ero appena tornata a scuola - racconta - e non mi ero resa conto della situazione, sapevo solo che mia madre non era a casa. Mio padre ha trascorso diverse ore cercando informazioni tra i feriti, poi abbiamo scoperto che mia madre era una delle otto vittime. Ricordo di aver notato un forte contrasto tra il cielo azzurro sopra la piazza, gremita di gente e fiori colorati, e l’atmosfera cupa della camera ardente allestita in Loggia. Non riuscivo a capire cosa ci facessero tutte quelle persone, venute per dare l’ultimo saluto a mia madre, poi ho imparato cosa significa condividere un dolore con l’intera città. Oggi Brescia è cambiata, ma mantiene sempre un forte senso di partecipazione civile».
Molto diversi i racconti di Manlio Milani, che all’epoca era già più grande e consapevole: con un gruppo di amici, aveva deciso di partecipare con grande entusiasmo allo sciopero generale contro la violenza indetto il 28 maggio; andare in piazza significava assumersi un ruolo, esprimere la voglia di esserci e di mettersi in gioco per difendere la capacità di dialogo; «Ci si preparava a una festa – ricorda – e si è realizzata una strage. Se c’è una cosa che posso trarre da tutta la vicenda è il percorso di comprensione dei fatti: è facile dire che una cosa simile non deve accadere mai più, ma per dare forza a questa frase bisogna affrontare il perché è potuta succedere e interrogare noi stessi. La memoria, per essere un processo attivo, deve saper investigare e non deve limitarsi a guardare il colpevole del fatto, ma deve continuare a scavare fino alle ragioni che hanno prodotto l’azione; solo così si può avviare un processo di profonda riconciliazione». La situazione rimane aperta, una strage senza un colpevole, con vari processi che non portano a una soluzione ma continuano ad assolvere; così rimane aperta anche la ferita nel cuore dei familiari delle vittime, che devono convivere con un dolore che non può trovare consolazione nella giustizia.