Una situazione economica disastrosa, due guerre in corso, un processo di pace in Medio Oriente in stand by e difficili relazioni diplomatiche con Russia e Cina. È l’eredità pesante che l’amministrazione Bush ha lasciato a Barack Obama all’indomani del suo arrivo alla Casa Bianca. Come se non bastasse, a rendere più complicato il suo primo anno di governo si sono aggiunti problemi politici interni e divisioni al Congresso, a partire dalla riforma sanitaria. Eppure, la strategia di governo di Obama prima o poi darà i suoi frutti. Ne è convinto lo studioso G. John Ikenberry che manifesta un certo ottimismo nel tratteggiare il futuro del quadro politico statunitense. Il docente della Princeton University, autore di diversi libri e saggi, alcuni dei quali pubblicati in Italia dalla casa editrice Vita e Pensiero, è stato ospite nei giorni scorsi dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) dell’Università Cattolica per dare il via alla decima edizione del Leading Scholars’ Program. Il politologo americano nel corso del suo intervento dal titolo: Will the Rise China Lead to Global Conflict or Cooperation?, ha analizzato soprattutto la politica estera statunitense con un particolare focus sul rapporto Cina e Stati Uniti.
Secondo Ikenberry l’attuale presidente è artefice di un evidente cambio di rotta in ambito internazionale. «Obama ha un approccio pragmatico alle questioni - ha osservato lo studioso -. Rispetto al predecessore, sta privilegiando il ritorno a un più tradizionale ruolo della leadership americana nel contesto mondiale, basato su partnership e accordi multilaterali. Però sono pessimista sul fatto che nei prossimi anni in Afghanistan e in Iraq si possa raggiungere un establishment democratico». Da questo punto di vista, invece, è necessario che gli Stati Uniti riducano gli impegni in entrambi i territori e concentrino la propria attenzione su nuovi fronti. Quanto all’intricata situazione del medioriente, per rilanciare il processo di pace occorre porre condizioni alle due parti.
Sul fronte orientale, la forte crescita economica della Cina può avere forti ripercussioni sugli equilibri politici globali. «Inutile dire che tra Washington e Pechino vi siano dei contrasti», ha osservato il docente di Princeton. L’accumulo, poi, di riserve in valuta estera da parte cinese rischia di rendere quanto mai tesi i rapporti non solo con gli Usa, ma anche con altri paesi. Quindi, saranno non poche le pressioni cui la Cina dovrà far fronte nei prossimi anni. «Tuttavia, non credo si possa arrivare a una seconda guerra fredda - ha notato Ikenberry -. Gli Usa hanno bisogno dell’appoggio della Cina per l’Iran, per il global warming e per bilanciare gli equilibri. Viceversa il gigante asiatico, ormai ben integrato nel Wto, ha bisogno degli Usa per il suo export e non è interessato a intraprendere una politica aggressiva».
Ci sono una serie di indizi che fanno pensare che entrambi i governi stiano lavorando per gestire al meglio un rapporto alquanto complesso. «Il loro non sarà un matrimonio felice - ha sottolineato il politologo -. Ma spero che col tempo i due paesi possano sviluppare nuove relazioni basate sulla ricerca di soluzioni comuni e concrete a problematiche globali quali: la lotta al terrorismo internazionale, la questione ambientale e la ricerca di nuove fonti energetiche». L’incontro che l’estate scorsa si è svolto a Washington tra una delegazione cinese guidata dal vicepremier Wang Qishan ed esponenti dell’amministrazione Obama indicano che qualcosa si sta muovendo proprio lungo questa direzione.