Che ruolo deve avere il conflitto nella democrazia? In che modo può essere oggi la linfa vitale del processo democratico e non una minaccia? E che ruolo hanno le élite in tutto questo? Sono alcune delle domande emerse nel corso del webinar "Pochi contro molti. Il conflitto politico nel XXI secolo”, una conversazione organizzata e moderata dal professor Damiano Palano all'interno del ciclo "Stato di emergenza" tra Nadia Urbinati, docente di Teoria Politica alla Columbia University e autrice del libro che ha dato il titolo all'incontro (Laterza, 2020), e Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica e direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali.
Per trovare delle risposte bisogna innanzitutto ricordare che la diversità di visioni e il pluralismo sono elementi per natura presenti nella società. La politica, di conseguenza, deve essere capace di gestire, sintetizzare e sfruttare i potenziali conflitti per rafforzare il sistema democratico. «I teorici della politica hanno sempre pensato che le istituzioni, le procedure e le regole del gioco animassero il corpo sociale capace di incanalare passioni e interessi in modo funzionale per il sistema - spiega Urbinati - e che opposizione e compromesso tra posizioni differenti fossero un elemento costitutivo, quasi scontato, del confronto democratico».
Questa impostazione teorica si presta a interpretare i conflitti del Novecento, che proprio attraverso scontri dai tratti feroci e atrocità hanno portato alla nascita del concetto contemporaneo di democrazia, ma oggi lo scenario sembra cambiato. Dilaga una stigmatizzazione del conflitto e prende sempre più peso «l’idea reazionaria che tutti abbiano un interesse comune di partenza», afferma Parsi. In questo modo si perde di vista che «l’interesse generale si costruisce non negando il conflitto, ma esercitandolo», perché solo nel conflitto politico regolato è possibile che avvenga la sintesi tra interessi di partenza divergenti e dunque si realizzi la democrazia.
La posta è che ci sia progresso politico possibile solo se le istanze convergenti non formano un gioco a somma zero: «affinché questo si realizzi -è la tesi di Urbinati- è necessaria una leadership, una visione di interesse pubblico condiviso capace di entrare in contrasto con un altro e regole costituzionali precise entro cui si svolge la battaglia», altrimenti la democrazia non può esercitare la sua funzione educativa e organizzativa della società.
È qui che si fa evidente la divisione, sempre presente nelle democrazie ma oggi estremamente profonda e persistente, tra pochi e molti, tra oligarchia e resto della popolazione: «A causa del depauperamento organizzativo del conflitto - prosegue Urbinati - siamo davanti a un profondo dualismo in cui la grande maggioranza può solo osservare dall’esterno il potere esercitato dall’oligarchia, senza poter fare affidamento su un conflitto organizzato per provare a cambiare la situazione, avendo a disposizione solo forme emotive forti per rappresentare il proprio dissenso».
«Il rischio, già concretizzato, che deriva dall’assenza del conflitto politico è che - argomenta Parsi - il vincitore prenda tutto per sempre, generando conflitto sociale e cristallizzando una vittoria temporanea che diventa fatalmente status quo». Davanti a questo scenario sconfortante, però, concordano Urbinati e Parsi, non bisogna perdere di vista una qualità che è evidente già nel termine "molti": il numero. I molti possono infatti far valere il proprio peso numerico e contro-mobilitarsi, trovando una dimensione comune pur partendo da varie identità, davanti a minacce rappresentate da leader populisti che sono stati capaci di mobilitare una grande parte di elettorato.