di Danilo Pagliari *
Siamo partiti sapendo già di non partecipare a una vacanza o a fare del turismo. Siamo partiti, io, Biagio e Ilaria, con tanta voglia di conoscere e con tanta voglia di poter aiutare, come meglio avremmo potuto, gli abitanti di Sambù, villaggio situato nella fitta giungla della regione del Darién, ai confini con la Colombia. Sapevamo a cosa saremmo andati incontro nel nostro Charity Work Program a Panama: lontani dalla modernità e dai confort della vita di tutti i giorni, lontani da casa, senza telefono né cellulare, in un villaggio raggiungibile solo via aerea o via mare, il cui unico mezzo di locomozione utilizzabile è la piragua, una sorta di canoa ricavata dallo svuotamento di un mezzo tronco d’albero. Queste erano le informazioni che avevo prima di partire. Ma, forse, è stato proprio questo a convincermi di più.
Decidere di utilizzare le mie uniche tre settimane di vacanza estiva, subito dopo gli esami di luglio e subito prima di quelli di settembre-ottobre, non è stata una scelta facile, e sapevo a cosa andavo incontro. Tante emozioni e un’esperienza che avrebbe influito sulla mia estate e forse addirittura sulla mia vita e sul mio modo di conoscere e praticare la medicina. Ed è stato così.
A Panama ad aspettarci c’era don Hector, un sacerdote panamense che ha studiato diversi anni a Roma e parlava un buon italiano. è stato la nostra guida nella “sua Panama”, interprete per incontrare e parlare con tantissime persone. Dopo esserci ambientati al clima, estremamente umido, e all’alimentazione panamense, ci siamo spostati dalla capitale Panama City verso il luogo della “Mission Don Bosco”: il villaggio di Sambù nelle fitte foreste del Darién. Il viaggio di andata, via mare, è durato un giorno intero con una prima parte di automobile e due lunghe traversate nell’oceano Pacifico a bordo di piccole barchette. Durante il viaggio, e Don Hector ci ha invitato a riflettere su questo, abbiamo percepito quali sono le strade utilizzate e cosa vuol dire “essere missionari”. Il ritorno, invece, è durato solo un’ora di volo, con un piccolo aereo-velivolo da 8 posti, troppo comodo rispetto al viaggio di andata. Prima riflessione: la comodità non è tutto e, in fondo, non è sempre vero che “il tempo è denaro”, perché il vero denaro dell’anima non è il tempo, ma l’amore che metti in quello che fai.
Arrivati al villaggio di Sambù gli abitanti del villaggio, sono venuti ad accoglierci e ad aiutarci a scaricare il materiale caricato sulla barchetta. Nei loro occhi si leggeva grande curiosità per il nostro arrivo. Queste persone ci hanno donato tutto quello che avevano: ci hanno fatti entrare nelle loro abitazioni, piccole capanne sollevate da terra senza pareti laterali e con pochissime cose dentro, ci hanno fatto mangiare la loro cucina tipica, povera sicuramente dal punto di vista nutrizionale, ma ricca della loro cultura, ci hanno fatto conoscere le loro attività e ci hanno seguito nelle nostre, ci hanno fatti sentire a casa. La canonica di don Hector costituisce il cuore della vita del villaggio, vero punto di riferimento per tutti gli abitanti. Grazie alla presenza della chiesa, alle sue attività giornaliere e alla sua continua opera di evangelizzazione, a Sambù si annuncia che c’è una maniera diversa di vivere, si condividono valori, si fa crescere un’etica dei comportamenti, del lavoro e della concezione dell’uomo e della donna. Una vera opera di promozione umana da parte della Chiesa missionaria, attraverso don Hector, in un popolo pieno di contraddizioni ma ricco di umanità.
Da questa esperienza missionaria abbiamo capito ancora di più che una vera medicina non può non essere anche una missione. Fare il medico è come una vocazione, stare vicino a chi soffre è come fare missione. Non è necessario spostarsi nell’altra parte del mondo per trovare persone sofferenti. Anche nei nostri reparti, si può vivere la propria missione. Ed è per questo che io ho deciso di diventare medico. Magari domani molti di noi diventeranno “professoroni” specialisti, più attenti ai titoli e alle parcelle, che alla persona malata che chiede aiuto. Da questa esperienza ho imparato che non c’è niente di più ripagante del sorriso che ti dona chi aiuti. Capisci che la forza dell’uomo è nella sua debolezza, che trova lo slancio alla ripartenza grazie alla solidarietà del prossimo. Potrei raccontare molti episodi, ma voglio ricordare qui, mandando un grande abbraccio virtuale, alcune persone che ho incontrato nelle splendide settimana panamensi: le due missionarie Monica e Sandra, “Natalina”, che è stata la nostra simpaticissima perpetua, e alla sua famiglia, al piccolo Angél, a don Hector, al dottor Mendoza, al dottor Aji e al dottor Josè, alla maestra Lourdes, e a tutte le persone di cui non ricordo il nome, ma di cui conservo il ricordo.
Nei due piccoli ambulatori del Centro di Salute di Sambù, senza radiografo, senza Tac e Rmn, senza ecografi, con pochi farmaci e con un laboratorio analisi attrezzato solo per pochi valori di ematologia, chimica e parassitologia, la gente entrava spesso con gravi malattie, ma usciva quasi sempre con una diagnosi, con una cura, e con la viva speranza di guarire. La medicina accanto all’uomo, questa è la migliore cura che si può dare ai nostri pazienti, e in luoghi come Sambù, spesso vi si riesce meglio rispetto a qualsiasi altro centro di avanguardia del mondo modernizzato. Quando lasci, anche se per poco tempo, tutto quello che hai per dedicarti agli altri, allora capisci il valore delle cose: vedi il mondo con occhi diversi e scopri che il bello della vita è proprio nelle piccole cose di tutti i giorni.
* 23 anni, quinto anno di Medicina e Chirurgia, sede di Roma, collegio “Nuovo Joanneum”