di Chiara Nava *
Sono partita per Haiti un caldo mattino di luglio e sono rientrata in Italia in un tiepido pomeriggio di settembre. E, da poco rientrata nel paese martoriato dal terremoto di un anno fa, vi racconto le emozioni e i ricordi di quella mia prima esperienza in un contesto di emergenza. Dopo la laurea in Ostetricia e la conclusione del master in Cooperazione internazionale per lo sviluppo in Aseri ho lasciato l’Italia alla volta di Haiti grazie a un incarico affidatomi dall’Avsi, una Ong che lavora nel paese dal 1999. Stare sei mesi tra i banchi universitari dell’Aseri mi aveva riempito di curiosità e di informazioni che aspettavano un riscontro pratico. Ed è stato grazie alle testimonianze di alcuni esperti durante le lezioni ho avuto il prezioso contatto con Avsi che mi ha permesso di vivere questa avventura.
Ero molto fiera della mia nuova esperienza, e anche un pizzico presuntuosa di sapere più o meno come sarebbero andate le cose, data una mia precedente esperienza in un paese cosiddetto “in via di sviluppo”. La mia presunzione è rimasta sul sedile del piccolo aereo Air France che da Guadaloupe mi ha portato a Port-au-Prince. Sono atterrata su questa città martoriata con un cielo nuvoloso. Dall’alto, poco prima dell’atterraggio, ho visto le case, i palazzi, le strade e i letti dei fiumi prosciugati di un unico colore ocra. Poi a tratti ho visto il bianco e il blu. Man mano che l’aereo si avvicinava al suolo i due colori hanno preso forma: tende, tendopoli prevalentemente blu e bianche sparse su gran parte della capitale di questo paese. Una visione da togliere il fiato: gli sfollati erano tanti, tantissimi.
Finisce che poi “ti abitui”, si dice così: ogni mattina mi alzavo di buon’ora, colazione abbondante per rimpiazzare il pranzo che molto probabilmente non ci sarebbe stato e via, alla volta dei campi sfollati di Cité Soleil, uno dei quartieri più poveri e violenti di Port-au-Prince. Il tragitto in pick‐up durava spesso un’ora per via del traffico, ma quei minuti passavano senza che me ne accorgessi, il mio sguardo si perdeva tra i venditori ambulanti che affollavano le strade, tra le montagne di rifiuti in cui razzolavano maiali e capre, tra le macerie del terribile terremoto del 13 gennaio 2010: tutto ciò mi teneva occupata e, purtroppo, rischiava di diventare normale. Solo quando ti concentri e magari pensi al tuo paese natale ti ricordi che le case possono avere un tetto e i bambini almeno un pasto caldo al giorno.
Non credo di essere mai stata cinica ma il rischio di cadere in questo atteggiamento è molto grande, soprattutto in un paese come Haiti in cui negli ultimi tempi la natura governa tutto, è dittatrice. Lavoravo in un progetto finanziato dall’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ocha), il cui obiettivo era di contenere il livello di denutrizione: tutto il giorno ero a contatto con le fasce vulnerabili della società ossia le donne incinte e allattanti e i bambini dai 6 mesi ai 5 anni. Il terremoto in Haiti ha messo davanti alla comunità mondiale la necessità di coordinare gli interventi per risollevare un popolo in ginocchio, a partire dalle persone, dal nucleo primordiale e fondamentale su cui si basa una società civile: la famiglia.
Lavorare in un progetto di nutrizione mi ha permesso di addentrarmi con discrezione nella vita quotidiana degli sfollati (e non solo), scoprendo sfumature antropologiche uniche: combattere la malnutrizione non significa solo prendere in carico una persona con le sue misure antropometriche e trattarla clinicamente, ma farsi carico interamente della sua vita, con e relazioni, gli affetti, il lavoro, la salute. Il mio lavoro consisteva nell’affiancare il personale locale nelle fasi di screening per individuare bambini e donne malnutriti, prenderli in carico ambulatorialmente ed effettuare dei controlli clinici settimanali, che nel mio caso erano prettamente counselling ostetrici.
A sei mesi dal terremoto, grazie agli sforzi della popolazione e delle Organizzazioni non governative, non si è assistito all’aumento della malnutrizione acuta, ma circa 65.000 bambini (di cui circa 2000 affetti da malnutrizione severa) restavano bisognosi di assistenza nutrizionale; un totale pari a circa il 52% delle famiglie era individuato come “food insecure”, quindi bisognose di supporto. Alla fase di diagnosi seguiva un trattamento terapeutico a base di farmaci essenziali e alimenti ipercalorici pronti all’uso. Questa attività mi occupava l’intera mattinata sino al primo pomeriggio, quando lasciavo Cité Soleil alla volta degli uffici Avsi per fare dei piccoli report delle attività e pianificare gli interventi futuri.
Questo lavoro metteva a dura prova la resistenza fisica: sul campo l’attività si svolgeva sotto le tende, che per quando ampie e pulite avevano una temperatura media di 38‐45°C! Ma non mi sono mai lamentata, contenta di fare un lavoro i cui risultati erano direttamente visibili e monitorabili. C’è sempre stato molto spazio per la “creatività”: sono stati organizzati degli interventi formativi nel mese di settembre direttamente impostati e modulati in funzione delle necessità dei beneficiari del progetto: si è parlato di gravidanza e allattamento con le donne e sempre con esse di igiene e nutrizione, inserendo canzoni tematiche, poster, consigli, ricette di cucina tradizionali, sempre partendo da un approccio “bottom up”, quindi dal basso, dalle reali necessità.
Il coinvolgimento è stato davvero totale e le campagne di sensibilizzazione vincenti. Non era fondamentale avere ecografi o laboratori analisi, non importava la completa asepsi: la malnutrizione è un problema sociale che esula dalla clinica in senso stretto, e in quanto tale va trattato in maniera olistica. Avsi permette tutto ciò poiché l’approccio è globale: il trattamento ambulatoriale di base mantenendo i links con i centri di salute avanzati (Medici Senza Frontiere, Croce Rossa…) unito all’attività educativa, in cui l’Ong è maestra. Questa è la vera ricetta che apre le porte alla salute, e quando un popolo è in salute, allora c’è vita e sviluppo.
Mi ha insegnato tante cose questa esperienza, la prima di tutte è che non esiste un “sottosviluppo”, ma tipologie di paesi diversi, con tradizioni e substrati sociali più o meno aperti alla globalizzazione, ma non arretrati. Credo che finalizzare il proprio lavoro a dei numeri o tassi sia poco soddisfacente poiché si lavora ogni giorno con persone che non vogliono essere trattate in base alla loro patologia bensì in base ai loro bisogni, ed è proprio il bisogno espresso che discrimina l’essere umano dagli altri esseri. Ricostruire dopo un terremoto non è semplice: se la ricostruzione si limitasse a fondamenta, mura e tetto, allora avremmo avuto una nuova Port-au-Prince in poco tempo. Ma rimettere in piedi le persone presuppone un lavoro più faticoso e lungo, che muova le radici di una società. Io credo che Avsi abbia contribuito a dei grandi risultati per la popolazione, e non solo in termini clinici. Scegliere di promuovere la salute significa farsi carico delle famiglie, e con esse le loro storie, affiancandole e con loro credere in un futuro in salute per le prossime generazioni: l’approccio di continuo stimolo per creare salute è benefico e non va mai interrotto. Il secondo insegnamento che mi ha dato questa esperienza è la sicurezza di poter dire che questa è la strada che voglio intraprendere professionalmente. Avevo pochi dubbi prima, ma ora Haiti e Avsi li hanno cancellati. Ed eccomi di nuovo qui.
* 23 anni, ha frequentato in Aseri il master in Cooperazione internazionale per lo sviluppo nell’anno accademico 2009/2010, ha conseguito il titolo nel novembre scorso, per tornare poi ad Haiti