Domenica 20 e lunedì 21 settembre gli italiani si recheranno alle urne per decidere, in concomitanza con le elezioni regionali e comunali, se confermare o meno la riforma costituzionale che riduce il numero dei parlamentari, portando i deputati alla Camera da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Si tratta di un referendum confermativo che, a differenza di quello abrogativo, non prevede il raggiungimento di un quorum di affluenza, per cui l’esito è valido indipendentemente dalla percentuale di partecipazione degli elettori. Per fare chiarezza sul tema e capirne qualcosa di più abbiamo chiesto agli esperti dell’Università Cattolica di entrare nel vivo della questione al di là delle ragioni partitiche che dividono il Paese. Il nostro Speciale referendum


di Agostino Giovagnoli *

La storia dei referendum confermativi in Italia non è stata finora molto felice. Questo tipo di referendum può scattare solo quando una legge di riforma costituzionale non è approvata da entrambi i rami del parlamento con una maggioranza di due terzi. In pratica, quando è approvata solo dallo schieramento politico di maggioranza e respinta dalla/e minoranza/e. E questo è già, di per sé, un problema. Non è infatti auspicabile che una materia così delicata come quella costituzionale sia decisa a colpi di maggioranza. Per ciò che riguarda la “casa comune” è sempre auspicabile un dibattito approfondito, l’ascolto delle voci di tutti e il massimo del consenso possibile. Non va neanche bene, inoltre, il modo in cui una decisione che è stata presa viene sottoposta al popolo. La materia costituzionale, infatti, è per sua natura particolarmente complessa e l’alternativa secca tra il Sì e il No è spesso inadeguata per affrontare tale complessità. Ai cittadini, in altre parole, non è consentito intervenire per correggere eventuali squilibri dell’architettura costituzionale creati dalla riforma sottoposta alla loro valutazione.

Il primo referendum confermativo si è tenuto nel 2001 e riguardava "modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione" approvate in parlamento solo dalla maggioranza di centro-sinistra. Tra i punti più significativi c’era la ridefinizione delle materie di competenza dello Stato e delle regioni, per alcune delle quali si stabiliva - e si stabilisce ancora oggi, visto che al referendum prevalsero i Sì -  una competenza condivisa (concorrente). L’inadeguatezza di tale riforma è apparsa a molti evidente durante la recente emergenza creata dalla pandemia di Covid 19 che ha mostrato una situazione in cui decisioni importanti riguardanti la sanità pubblica devono essere prese a livello nazionale o, quantomeno, che è necessario non ci siano margini di ambiguità o sovrapposizioni di poteri fra Stato e regioni. Dietro i tantissimi conflitti tra autorità regionali e consiglio dei ministri degli ultimi mesi, infatti, non ci sono stati solo motivi politici, ma anche problemi giuridici. Ma nel 2001 un vento fortissimo spingeva verso il decentramento, l’autonomia o, come la si chiamava, la devolution a favore delle regioni: votarono 16 milioni di elettori (su 49 milioni di aventi diritto) e il Sì prevalse con il 64%. 

Il secondo referendum confermativo nella storia repubblicana del 2006 ha avuto per oggetto una riforma molto ampia, voluta dal solo centro-destra, che interveniva su parlamento, presidenza della repubblica, governo; magistratura; comuni, province città metropolitane e regioni; corte costituzionale; e revisione della costituzione. Era diretta a modificare profondamente l’architettura complessiva della Repubblica. Oltre a intervenire sul bicameralismo perfetto, accresceva in particolare i poteri del Primo ministro. Il referendum è stato richiesto da più di un quinto dei membri di una Camera, da più di cinquecentomila elettori e da più di cinque Consigli regionali. Fu molto sentito dagli italiani, votarono 26 milioni su 49 milioni di aventi diritto e prevalse di No con il 61%. Si diffuse allora la sensazione che la Costituzione, nelle sue linee di fondo, fosse considerata intoccabile dalla maggioranza degli italiani.  

Gli italiani sono stati poi chiamati a pronunciarsi sul terzo referendum confermativo il 4 dicembre 2016. Anche in questo caso, la materia sottoposta a referendum era molto ampia e per giunta disomogenea. La legge costituzionale includeva infatti molte questioni diverse come "disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione". Tra le ipotesi che furono avanzate ci fu anche quella dello “spacchettamento” e cioè del voto disgiunto sui diversi articoli della Costituzione che erano stati modificati. Tra i motivi per cui si formò uno schieramento contrario ci fu la convinzione che tale riforma richiamasse almeno in parte quella del centro-destra e, in ogni caso, che concentrasse troppo potere nelle mani del Primo ministro. Ma nel complesso, sulle questioni di merito, la campagna elettorale vide prevalere motivazioni politiche e il referendum divenne un’occasione non per valutare le riforme costituzionali proposte ma per prendere posizione su colui che più ne era politicamente responsabile: Matteo Renzi. 

Siamo giunti così al quarto referendum confermativo. Anche in questo caso, oltre alle questioni di merito hanno avuto molto peso quelle politiche. Il taglio dei parlamentari su cui siamo chiamati a votare, infatti, è stato approvato dal parlamento a seguito di un accordo politico che è stato all’origine del Secondo Governo Conte. Non avendo ottenuto i due terzi dei voti al Senato, come prescritto dall'articolo 138 della Costituzione, il provvedimento non è stato direttamente promulgato per dare la possibilità di un referendum confermativo, poi richiesto da settantuno senatori. Anche in questo caso è opinione di molti che il quesito sottoposto agli elettori non sia felice. È vero che, a differenza dei due precedenti, la materia è circoscritta, ma stavolta lo è fin troppo. Una sua eventuale approvazione, infatti, renderà necessarie numerose modifiche della legislazione elettorale, dei regolamenti di Camera e Senato, della definizione delle circoscrizioni e collegi elettorali ecc. È cioè una riforma che crea molteplici effetti “secondari” ma molto rilevanti, aprendo una serie di problemi per cui non indica la soluzione e che rendono necessari interventi affidati ad altri organi. Qualunque sia l’esito di questo referendum, sarà il caso di riflettere sui limiti di tale strumento.  

* docente di Storia contemporanea, facoltà di Lettere e filosofia, campus di Milano