Un processo chiave della maculopatia degenerativa senile (AMD), principale causa di ipovisione e cecità nel mondo. A scoprirlo i ricercatori dell’Università Cattolica di Roma che hanno compreso come le varianti genetiche (mutazioni) del gene CFH, inibitore della “cascata infiammatoria”, possano influenzare negativamente le proprietà elettriche dei “coni”, una delle due famiglie di cellule che costituiscono la retina.
La molecola CFH è un elemento importantissimo nella protezione della retina. I ricercatori, coordinati da Ettore Capoluongo, responsabile dell’Unità Operativa semplice di Diagnostica molecolare clinica del Policlinico universitario A. Gemelli, e da Benedetto Falsini, docente di Clinica Oculistica nell’Istituto di Oftalmologia dell’Università Cattolica di Roma, hanno scoperto che, quando un soggetto con maculopatia è portatore di una o due copie difettose del gene CFH (si dice che l’individuo è rispettivamente eterozigote e omozigote per quella mutazione) le alterazioni elettrofisiologiche della retina sono progressivamente e significativamente più gravi.
Lo studio, foriero di future applicazioni cliniche sul fronte diagnostico, prognostico e terapeutico, è stato pubblicato sulla rivista Neurobiology of Aging.
La degenerazione maculare senile (AMD) è una maculopatia che colpisce la parte centrale della retina, detta macula. Si tratta di una patologia degenerativa e progressiva che può portare a ipovisione e nei casi più gravi a cecità. La AMD colpisce il 20% degli individui over-50 e ben il 35% dei 70enni. Negli ultimi anni è stato documentato che una serie di fattori di rischio, tra cui il fumo, la dieta scorretta, l’obesità e il diabete rivestono un ruolo importante nell’insorgenza della maculopatia. Anche numerosi fattori genetici sono stati associati a un incremento di rischio di sviluppare la maculopatia. Tra questi, soprattutto i geni CFH e ARMS2: in particolare, la variante del gene CFH (chiamata rs1061170), è stata associata a un aumento di almeno cinque volte del rischio di ammalarsi di AMD.
Ma prima di questo studio targato Università Cattolica non era chiaro il ruolo di CFH nella genesi della disfunzione retinica propria della malattia. I ricercatori si sono concentrati sulle forme cosiddette “precoci” della AMD, cioè quelle che potenzialmente evolvono verso forme più gravi e invalidanti. Le forme precoci si presentano con le “drusen”, ovvero dei depositi di materiale pigmentato nel tessuto retinico maculare. La “drusen” è un rilievo molto frequente negli ultrasettantenni ed è un indicatore della malattia, ha aggiunto il professor Capoluongo.
Gli esperti hanno analizzato circa 50 pazienti e scoperto che nei soggetti portatori dei diversi genotipi CFH (cioè la combinazione delle diverse varianti di cui ciascuno individuo è portatore nel proprio Dna) la retina funziona più o meno bene, come è evidenziabile con un esame chiamato elettroretinografia, che misura le risposte retiniche a stimoli luminosi.
«Prima le varianti del gene CFH erano note solo in termini di associazione epidemiologica come fattori di rischio aggiuntivo di malattia – ha spiegato Capoluongo – ovvero era noto che i portatori di varianti genetiche a carico di CFH presentano un rischio medio 5 volte maggiore di ammalarsi». I ricercatori della Cattolica hanno confermato il legame biochimico tra AMD e CFH e hanno scoperto il peso che l’assetto genetico individuale può avere sull’insorgenza della maculopatia precoce.
«Il nostro è quindi uno studio funzionale – ha precisato Capoluongo - , abbiamo cercato di decifrare l’effetto di tale polimorfismo sulle proprietà elettrofisiologiche della retina e visto che l’averne una o due copie determina una progressiva alterazione del quadro elettroretinografico: ciò può indicare di sicuro che l‘effetto dei processi infiammatori alla base dell’AMD precoce è correlato alla presenza e al numero di tali varianti».
Gli esperti hanno eseguito un esame elettroretinografico originale e innovativo, messo a punto dal professor Falsini presso l’Istituto di Oftalmologia e, solo dopo aver eseguito questo esame, i ricercatori hanno sottoposto i pazienti al test genetico per verificare se fossero o meno portatori delle varianti di CFH e ARMS2.
È emerso che i soggetti con CFH mutato sono proprio i pazienti la cui retina versa in condizioni peggiori. La prognosi peggiore è rilevata per quei pazienti che hanno una doppia copia (alleli) del gene mutato, cioè sono “omozigoti” per questa variante.
Viceversa, i pazienti che all’elettroretinografia risultavano avere una retina funzionante in modo pressoché normale non erano portatori di mutazioni a carico di CFH.
Avere entrambi gli alleli CFH mutati (omozigosi), ha ricordato il professor Falsini, procura quindi una severa alterazione dell’attività dei coni (cellule retiniche). Significa che la malattia è più grave e che il paziente ha un maggiore rischio di diventare ipovedente.
Perché CFH è così influente per la salute della retina? CFH fa parte di un sistema che, normalmente, contrasta processi infiammatori deleteri per la retina, tanto più se sussistono altri fattori di rischio come dieta scorretta e vizio del fumo. Questa associazione non è stata invece riscontrata per le varianti del gene ARMS2, sia singolarmente, che in maniera combinata con le varianti di CFH, pur essendo i dati epidemiologici a favore dell’inclusione anche di tale gene tra i fattori di rischio di AMD.
L’idea è che riattivando la funzione di CFH con farmaci ad hoc o contrastando i fenomeni infiammatori con anti-infiammatori/antiossidanti, il decorso della malattia si possa rallentare. Studi in corso stanno mostrando l’utilità di una terapia anti-infiammatoria/antiossidante a base di estratti di zafferano, ha spiegato Capoluongo.
«Al momento – ha concluso Falsini - stiamo valutando l’efficacia di alcuni antiossidanti nei diversi subset di pazienti per arrivare a terapie mirate e differenziate, in funzione della gravità della prognosi che, in base ai nostri risultati, si potrebbe calcolare a priori valutando il numero di alleli CFH mutati presenti nel Dna del paziente».