di Adriano Pessina *
La disperazione, l’angoscia, la pulsione di morte, sono componenti normali della condizione umana, che a volte si affacciano dentro l’esperienza dei tempi lunghi della malattia, del dolore, della stanchezza del vivere o della paura del morire. Sono parte del vissuto di molti malati, che coinvolgono emotivamente e esistenzialmente coloro che li assistono. Ed è perciò soltanto comprendendo queste esperienze che si possono assumere seriamente delle risposte di sostegno, di aiuto, di cura. La Corte costituzionale, nella sua sentenza, ha chiarito come sia giuridicamente rilevante mantenere il reato di istigazione al suicidio proprio per tutelare, giuridicamente, socialmente e culturalmente le condizioni di estrema vulnerabilità dei cittadini. Il caso del suicidio assistito, si dice, è tuttavia formalmente differente, perché non si indurrebbe qualcuno a suicidarsi, ma si asseconderebbe la sua domanda di morte, già autonomamente maturata in piena libertà.
Bisogna osservare però che l’assistenza al suicidio comporta la cooperazione nei confronti di un atto – il suicidio – di fatto giudicato negativamente nella legge che ne punisce l’istigazione. Se, del resto, il suicidio costituisse un atto legittimo, non si potrebbe condannarne l’istigazione: non si condanna l’eventuale istigazione all’onestà. Ed è fuorviante, e anche offensivo nei confronti di tutti coloro che vivono i tempi lungi della malattia e della disabilità vincendo quotidianamente lo sconforto e la sofferenza, collegare il suicidio assistito al concetto di “dignità” o di “autonomia”, quasi che coloro che non intendono arrendersi alla sofferenza fossero privi di dignità, autonomia, libertà, autodeterminazione.
Per uno Stato laico e aconfessionale, che ha memoria della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, ogni suo cittadino, in ogni sua condizione sociale, economica e di salute, è sempre degno di tutela, di rispetto, di considerazione. Il concetto di dignità, nella sua portata universale, è quello che garantisce il diritto alla vita e alla cura e si oppone formalmente e sostanzialmente a un inesistente diritto a morire. La morte, comunque la si consideri, è la cessazione del diritto, la fine dell’autonomia e della libertà. Per questo motivo uno Stato può rispondere alle situazioni di estremo disagio favorendo e incrementando le cure, l’assistenza, il sostegno economico e sociale, non certo favorendo o avallando la morte volontaria di chi è in condizioni di estrema fragilità.
Non è nemmeno accettabile la proposta di chi, per introdurre l’eventuale depenalizzazione del suicidio assistito, propone, per gli operatori sanitari, la possibilità dell’obiezione di coscienza, fingendo così di interpretare il suicidio assistito come atto solidale “privato” tra due soggetti consenzienti: si tratta di un artificio retorico perché è evidente che laddove questa “complicità” non trovasse soggetti disponibili si dovrebbe imporre a qualcuno di assecondare una richiesta ritenuta legittima.
Prendiamo sul serio i profondi disagi, le sofferenze e le fatiche delle persone, ma rispondiamo nell’unico modo che è moralmente legittimo e socialmente rilevante: evitando forme di abbandono terapeutico e assistenziale e incrementando i processi di assistenza. Uno Stato ispirato a criteri di solidarietà e di rispetto della persona non può favorire, avallare, accettare che il suicidio assistito entri nelle corsie degli ospedali, nelle case di cura, nelle abitazioni dei suoi cittadini, creando una figura autorizzata a favorire la morte al posto dell’assistenza.
* Ordinario di Filosofia Morale, facoltà di Scienze della formazione, campus di Milano