Il prossimo 3 novembre gli americani saranno chiamati al voto per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti. Abbiamo chiesto ad alcuni giornalisti di varie testate, particolarmente esperti di politica americana e molti dei quali alumni dell’Università Cattolica, di aiutarci a capire dove stanno andando gli Stati Uniti e come affrontano uno dei passaggi più delicati della loro storia. Il nostro speciale
di Luca Aprea
Tra Joe Biden e Donald Trump, all'improvviso, ma non per questo imprevisto, è arrivato lui: il Covid-19, ovvero il vero grande protagonista di questa campagna elettorale. Colpendo direttamente il presidente uscente, il virus ha ridisegnato tempi e ritmi della competizione elettorale. Quanto influirà sul voto? Ne abbiamo parlato con Mattia Ferraresi, caporedattore di Domani, il nuovo quotidiano arrivato nelle edicole lo scorso 15 settembre. Ex corrispondente dagli States per Il Foglio, Ferraresi, che ha scritto anche per New York Times, Wall Street Journal, Boston Globe e Foreign Policy è un grande esperto di politica americana. Ed è un alumno del nostro Ateneo dove ha studiato Filosofia.
Che impatto avrà il Covid-19 su queste presidenziali? La positività al virus potrebbe rappresentare un vantaggio per Donald Trump? «La pandemia è un caso unico non solo per le presidenziali ma per tutti gli Usa (e non solo, ovviamente). Ha rappresentato l'irruzione della realtà dentro a un grande reality. Il Covid-19 è un fattore che ha travolto tutto. Trump, con la sua passerella in occasione del ritorno in pubblico, è riuscito a riportare sul piano del reality anche la malattia. È una grande lotta tra realtà e reality».
In questo momento i sondaggi danno Trump in svantaggio... «Attenzione, sottovalutare le abilità narrative di Trump è un errore. L’incoerenza di Donald Trump, anzi, la sua maxi-incoerenza, è diventata un metodo. E ha presa. Questo istinto sarà sufficiente per essere rieletto? I numeri, al momento, dicono di no, ma attenzione, perché i numeri della vigilia lo davano perdente anche quattro anni fa. Io sarei molto cauto in tal senso».
Perché? «Trump non è un’anomalia del sistema. Se perderà dire che gli Stati Uniti tornano in carreggiata dopo un periodo di sbandamento sarà un errore. I temi che ha intercettato resteranno validi comunque vada. Ridurre la sua elezione a una casualità o ad alcuni fattori particolari è riduttivo. Lui ha saputo, non di ragione, ma d'istinto, capire alcune situazioni, profonde, non superficiali, della società americana. Sbagliato ridurre tutto questo a mera antipolitica. Probabilmente tra un paio d’anni guarderemo a questo periodo storico e a questa presidenza col distacco necessario per un’analisi più profonda».
Dopo il confronto-rissa tra Trump e Biden molto interesse ha suscitato anche il duello tra u due vice, Mike Pence e Kamala Harris, soprattutto quest'ultima è forse il vero volto nuovo, sul fronte democratico, di questa campagna. «Kamala Harris è un personaggio che è stato raccontato male. Vero, la sua storia è straordinaria, un’afroamericana di origine indiana è un esempio molto interessante della multiculturalità statunitense, ma non è stato detto che rappresenta l’establishment. È un personaggio estremamente lontano dai valori progressisti e di sinistra, basti pensare che in occasione dei recenti disordini ha preso le parti della polizia. Nella sua biografia c'è un doppio binario tra la sua storia personale e quella pubblica. Il dibattito con Pence è stato un confronto tra due personaggi dell'establishment. Tra due sponde opposte e con profonde differenze ma che fanno parte della stessa tradizione».
Seconda di una serie di interviste con giornalisti esperti di politica americana in vista delle Presidenziali Usa 2020