di Alessandro Petrecca *
In Uganda la terra è rossa, la gente scalza e l’aria piena di polvere. Le ruote sussultano sopra le strade di Kampala e sfilano disordinate tra la folla, troppe auto e tantissime moto, così tante che ti ritrovi circondato ed improvvisamente imbottigliato in un traffico scomposto, che fa a pugni per sbrigliarsi e spingersi in avanti.
In Uganda la gente è povera e ride, ti guarda mentre passi, osserva come sei vestito, il mondo diverso dal quale vieni, ma non è invidiosa, anzi ti accetta, ti saluta, ti apprezza. I bambini amano toccarti le mani, le braccia come un santo; carezzarti la pelle con le dita, scoprire cosa sono quei puntini neri che ricorrono spesso sulla nostra cute, venirti dietro e ridere, ridere tanto e chiederti per cortesia di ascoltare i loro sogni, che custodiscono fieri e con la dolcezza dei bambini.
In Uganda la gente soffre come in ogni parte del mondo: il dolore, il pianto, il lutto hanno lo stesso colore che altrove.
In Uganda la gente è coraggiosa, vive la malattia come una battaglia, la guarigione come una salvezza, il tuo camice bianco come un dono dal cielo.
In Uganda mi sono ritrovato spettatore di una realtà che non mi apparteneva, ma che ho imparato a sentire mia, di un popolo sconosciuto, che mi ha amorevolmente accolto, di un’umanità senza interessi, che mi ha regalato uno sguardo più sincero per vedere il mondo.
* 22 anni, di Termoli (Cb), studente del quarto anno di Medicine&Surgery, facoltà di Medicina e Chirurgia, campus di Roma