Erri De Luca (a destra) al Policlinico Gemelli intrervistato da Luciano Onder per "Il cielo in una stanza"Chi è Erri De Luca? Da questa domanda, tanto immediata quanto radicale, lo scorso venerdì 4 febbraio a Roma si è sviluppato un intenso dialogo fra Luciano Onder e lo scrittore partenopeo nell’ambito del nuovo appuntamento de “Il cielo nelle stanze”, l’iniziativa promossa dal Policlinico “Agostino Gemelli” e dalle librerie Arion.

Chi è, dunque, De Luca? «Essenzialmente – ha risposto – sono una persona che scrive storie. Brevi, in genere, perché credo che con quelle pagine io diventi un ospite del tempo dei miei lettori, quindi non voglio abusare della loro pazienza. Nella mia vita sono stato spesso ospite in casa d’altri, acquisendo l’attitudine a non restare più del giusto, ad andarmene un momento prima di trasformarmi in un peso».

Le storie di De Luca si dipanano in una varietà di racconti, fiabe, romanzi, da Non ora, non qui, a Il giorno prima della felicità, fino a Il peso della farfalla. Nei suoi lavori, la parola sembra come scolpita: «Lo ritengo doveroso, non si può scrivere senza cercare la precisione. Ma le mie frasi hanno anche un’altra caratteristica: di solito non sono più lunghe di quanto il fiato non permetta, nel pronunciarle». È il nesso con l’oralità, e l’ascolto, che si fa centrale nell’invenzione linguistica di De Luca: «Con il mio orecchio ho sentito i terribili bombardamenti di Napoli. E soprattutto le tante narrazioni sulla guerra offerte dalle donne: cronache ricche di bellezza e atrocità, ma sempre con una certa quota di comicità, come una spezia quasi indispensabile nel descrivere la tragedia».

Napoli: per De Luca, terra natale in cui è avvenuta l’educazione sentimentale, «intendendo con ciò la conoscenza dei sentimenti, come la compassione o la collera». Terra ormai irreparabilmente lontana, nel tempo più che nello spazio. Un luogo da cui è partito (anzi, da cui si è «estratto come un dente dalla gengiva, senza riuscire mai davvero a trapiantarsi altrove») e nel quale non sente più di poter tornare («posso solo andarci, di quando in quando»). «Prima – osserva ancora lo scrittore – era una città del Sud, d’Italia e del mondo, che aveva sempre avuto una relazione strafottente con i diversi poteri che l’hanno occupata, come intonaci provvisori. Oggi invece Napoli è una realtà europea, una “sfumatura del Nord”, con tutti i problemi che sappiamo».

Nella sua vita, De Luca ha affrontato numerose situazioni dure, controverse, talora inconsuete per un “uomo di lettere”: operaio alla Fiat di Torino, emigrante in Francia, attivista di Lotta continua. «Ma non penso di avere esercitato scelte, quanto piuttosto di aver aderito a sommovimenti storici imponenti. Ho un rapporto di lealtà nei confronti di quella gioventù rivoluzionaria, quando – in uno sciame sismico dall’Oriente alla America latina – le masse hanno trovato un riscatto». E il 1968 italiano, fu un’occasione o una sconfitta? Secondo De Luca «pur tra luci e ombre il bilancio è positivo. Pensiamo, ad esempio, ai libri che sono finalmente entrati nelle prigioni: essi, veri strumenti di “evasione”, hanno cambiato il rapporto dei detenuti con la reclusione, che ha potuto essere meglio accettata e talvolta raccontata».

Immancabili alcuni riferimenti al “mestiere di scrivere” e al mondo della letteratura in Italia. Su quest’ultimo De Luca esprime un giudizio alquanto aspro, nella sua schiettezza: «Da noi non c’è alcuna comunità letteraria, ci sono solo individui che scrivono senza condividere alcunché. Comunque, per ciò che mi riguarda, scrivere non è certo un lavoro: è da sempre un tempo festivo, in cui attendo con la mente vuota che si riveli una scintilla, che qualcosa di quanto ho letto, vissuto, ricordato si metta in risalto. Solo nel vuoto c’è vera apertura, è lo spazio di un’ulteriore ospitalità: quella necessaria per le idee». E, da lettore, qual è il libro preferito? «Don Chisciotte, che racconta l’eroe perfetto: sempre battuto, già vinto e perciò assolutamente “invincibile”».

Un’altra tessera fondamentale nel comporre il complesso mosaico artistico di Erri De Luca è poi lo studio della Bibbia. A partire dal 1976, nasce in lui una straordinaria passione per un’opera «che non assomiglia a nessun’altra». Da ciò il desiderio di indagare come fosse “fatta” la lingua di quella notizia. «Fu così che decisi di segnalare con mie traduzioni alcuni casi in cui mi pare utile allontanarsi dalle versioni più classiche, usando invece – consapevolmente – un italiano costipato, incatenato, posto al servizio dell’ebraico antico; realizzando “traduzioni”, appunto, in un senso strettamente carcerario».

Pur confessando di non essere credente («Non riesco a dare del “tu” alla divinità»), De Luca rifiuta l’ateismo, perché l’ateo «è affine al talebano, che ritiene di aver risolto il problema della ricerca una volta per tutte». E poi nelle Scritture rinveniamo messaggi mirabili, come un passaggio del Talmud, che lo scrittore dedica ai tanti malati presenti nella hall e collegati dai reparti del Gemelli grazie al circuito tv interno: «“I cardini reggono la porta e le prove reggono l’uomo”: ogni esperienza, per quanto amara, lungi dal rappresentare una “demolizione”, può sempre rivelarsi come la nuova prospettiva da cui far ripartire le nostre esistenze. Dobbiamo imparare a sorprenderci a essere felici: ciascuna singola, piccola felicità in sé non fonda una persona, ma la alimenta e la tiene in tensione fino alla felicità successiva».