di Alessia Romito *
Scegliere la professione medica non è una scelta semplice. Non può limitarsi a studiare quei volumi enormi che gli studenti guardano con un po’ di insofferenza: significa anche mettere la propria vita al servizio degli altri e mantenere ben presente quest’idea in ogni momento della propria carriera universitaria. Ma lo sforzo fisico, l’impegno necessario, gli esami incombenti spesso ci fanno dimenticare le ragioni di una scelta. L’esperienza di volontariato, che ho vissuto in Uganda la scorsa estate, le ha riaccese.
Sveglia alle 7:00 in punto, doccia veloce e poi giù verso la missione. Camminavamo per strada, raggiungevamo l’ospedale e afferravamo quel camice bianco che sembrava proteggerci dal dolore che scorreva davanti ai nostri occhi. Una sofferenza che non eravamo abituati a vedere. Il pulmino rosso ci portava in giro per le strade di Kampala, e vedevamo scorrere le nostre giornate in quelle corsie di ospedale, con quegli sguardi che ti entravano dentro e s’impadronivano della tua essenza: pezzi di cuore che lasciavamo in ogni dove. Le giornate in Uganda scorrevano lente, perché ricche e intense. Non importava come avessimo trascorso la giornata, l’importante era esserci. E a fine serata, la casa di padre John diventava un porto di mare; attorno a quella tavola era come essere membri di una stessa famiglia, che si riuniva dopo una giornata trascorsa e si raccontava. Padre John per un motivo o per un altro, cominciava i suoi racconti, e tutti venivamo catapultati in un mondo parallelo, che pochi decenni addietro rappresentava l’atroce realtà di un Paese afflitto dalle guerre civili: i ribelli della Lord Resistence Army che raggiungevano i villaggi, rapivano i bambini e violentavano le donne; e un padre, con migliaia di figli da proteggere. Sentivamo raccontarci la storia, quella che noi occidentali non conosciamo o ignoriamo, perché troppo presi dai nostri impegni quotidiani.
Il viaggio in Uganda ci ha concesso di avere un’idea, se pur vaga del continente nero. L’Africa non è un luogo; non è un tempo. L’Africa è una sensazione, che si impadronisce di te e non ti abbandona mai; è quello sconvolgente rumore del silenzio, che forse fa pure un po’ paura; è un profondo senso di libertà che ti concede di essere veramente quello che sei, senza quelle maledette maschere che ci cuciamo addosso; è una sensazione di pace, che scaturisce dall’equilibrio tra corpo e spirito, è felicità pura che ti restituisce il sorriso; è un barcollare su un filo che può spezzarsi da un giorno all’altro, è accettazione della morte per le vite che si spengono così giovani; è dolore per la piaga della fame.
Se mi chiedessero cos’è stata l’Africa per me risponderei con il titolo di una canzone di Allevi “Back to life”. Gli occhi della gente, la loro fratellanza, la tenerezza dei bambini che corrono per afferrare la tua mano, i “Musumbu” che senti pronunciare per strada quando cammini, e la gioia profonda che leggi stampata sui loro sguardi, se pur segnati dal dolore e dalla sofferenza, ti restituiscono il senso, quello che spesso perdiamo durante il nostro cammino.
* 19 anni, di Grotte (Ag), terzo anno del corso di laurea Medicina e chirurgia, sede di Roma